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2021: l’anno del podcast


Il primo è stato Veleno, nel 2019, dopo il quale anche i podcast sono diventati parte della mia quotidianità. Tuttavia, se qualcuno me lo avesse predetto non gli avrei creduto. Considerata l’attuale offerta di contenuti, mai avrei pensato che questo format potesse ritagliarsi uno spazio così ampio (sono stimati in 9,3 milioni gli ascoltatori mensili di podcast in Italia, con un tasso di crescita del 4 per cento nel 2020 rispetto al 2019, e dell’1 per cento nel 2021 rispetto al 2020). Ovviamente mi sbagliavo.
Veleno ha aperto una porta che non ho più chiuso, e quello che segue è un breve viaggio nei 5 titoli che più ho apprezzato del 2021 (l’ordine è puramente cronologico: dalla data di ascolto più remota a quella più recente).



Limoni. Il G8 di Genova vent’anni dopo
di Annalisa Camilli con Carlo Bachschmidt, Marzia Coronati e Anita Otto, Internazionale, 8 episodi


Comincio ad ascoltare Limoni negli ultimi giorni dello scorso giugno, quando ho Genova sempre in testa perché sto scrivendo il mio ricordo del G8. Mi sono trasferito da poco più di un mese in un piccolo borgo di montagna, le giornate iniziano a scaldarsi, nella piazzetta del paese si affacciano i primi turisti e io trascorro le ore alternando lunghe sessioni di lavoro sui libri degli altri al tentativo faticoso di fare ordine nella memoria — chiedo di aiutarmi a chi quel sabato 20 luglio 2001 era con me, recupero le poche foto analogiche scattate, il biglietto del treno, una rudimentale mappa del tracciato seguito dal corteo.
Temo non tanto di non ricordare, ma di ricordare male: di confondere luoghi, momenti, facce, magari anche di inventare, senza volerlo, cose mai accadute perché lo sanno tutti: non è mica vero che la memoria è una fonte affidabile, anzi, è la più ingannevole (anche se all’epoca non l’avevo ancora ascoltato, lo spiega bene un altro podcast, Polvere, di cui scrivo di seguito).
Insomma, per giorni brancolo nell’incertezza, ma poi scatta qualcosa: decido di fidarmi di me, dei miei ricordi e di quello che ho raccolto, e inizio a scrivere. Tuttavia il tarlo non scompare: sarà affidabile quello che racconto?
Poi arriva Limoni e tutto, non so come spiegarlo, si ricompatta, prende forma, e l’incertezza dei giorni appena trascorsi lascia il posto a due sentimenti.
Il primo è di sollievo: i ricordi di Annalisa Camilli assomigliano tanto ai miei. Certo, i suoi sono più dettagliati e precisi, il suo racconto più ampio e accurato, ma gli uni e l’altro confermano che non mi sono inventato niente, che quello che ho visto io lo hanno visto anche altri, e da questa ratifica ricavo un senso di conforto.
Il secondo sentimento è quasi opposto al primo: sapevo che ascoltare Limoni avrebbe riesumato la rabbia e il senso di impotenza di quei giorni, però non sono pronto a scoprire che ira e scoramento sono ancora così vivi, e certi passaggi del podcast — le oscene conversazioni private tra gli agenti di polizia, le testimonianze delle persone a cui alla Diaz ha spaccato ossa e denti, o di chi è stato torturato a Bolzaneto — mi riportano indietro di vent’anni in maniera così violenta da stordirmi. E tutto questo mi rende nervoso, inquieto, e anche un po’ arrabbiato, con me stesso e con quella pletora di frasi fatte che riempie la rete nella settimana del ventennale.
Poi però, nell’ultima puntata, Camilli, quasi a mo’ di rimprovero, dice: «Ricordare è importante, la memoria è una facoltà umana e dolorosa, ci tiene insieme alle persone che ci hanno preceduto ma anche a quello che noi stessi siamo stati. Eppure nei ricordi si rischia di barricarsi per non uscire fuori, confrontarsi con il tempo che è passato, le forme che abbiamo preso, i rami che abbiamo tagliato». Bello. E poi legge un passo tratto da un libro di Susan Sontag, un’autrice che amo, e tutto si ridimensiona, si colloca nella giusta prospettiva: «Forse attribuiamo troppo valore alla memoria e non abbastanza al pensiero. È un’illusione pensare che ricordare ci risparmi dal fare altri errori. […] Più importante di ricordare è pensare».



Polvere. Il caso Marta Russo
di Chiara Lalli e Cecilia Sala, Emons Italia e Myagi Entertainment, 8 episodi


Le colazioni in compagnia del professor Guido Bulla, che ho già avuto modo di definire l’uomo più divertente che abbia mai conosciuto nella mia vita, sono uno dei ricordi romani che ancora oggi mi scaldano il cuore.
In alcune di quelle mattine, per coprire le poche centinaia di metri che separavano il civico 18 di via Arezzo (dove lui viveva e io lavoravo) dalla caffetteria siciliana di via Catanzaro (dove Guido veniva accolto come una rockstar) impiegavamo un tempo indefinito, perché chiunque incontrasse il professor Bulla non poteva resistere al piacere di scambiarci qualche chiacchiera. E in tante di quelle occasioni a farlo è stato Salvatore Ferraro che, se non ricordo male, di Guido era stato uno studente e da quelle parti viveva, gestendo anche una bella libreria indipendente.
Ricordo che la prima volta che Guido si imbatté in Ferraro in mia compagnia, io non riuscii a dissimulare un certo disagio. Quand’ero ancora uno studente universitario a Trieste, l’omicidio di Marta Russo (9 maggio 1997) mi aveva molto colpito e ne avevo seguito gli sviluppi con quella forma di leggera ossessione che spesso dedichiamo ai casi di cronaca nera e di cui poi ho cercato di liberarmi, senza tanto riuscirci. Così, trovarmi di fronte a uno dei due giovani uomini che la giustizia italiana aveva ritenuto responsabili di quella morte mi aveva in qualche modo turbato, dando il la ai peggiori pensieri.
In quell’occasione Guido mi presentò Ferraro, ci stringemmo la mano, cercai di nascondere il mio imbarazzo ma probabilmente senza riuscirci, perché non sono mai stato bravo a farlo. Quando poi, rimasti di nuovo soli, il prof Bulla cominciò a spiegarmi perché lo conosceva, nel suo tono di voce percepii qualcosa di insolito, riconducibile a una sorta di fastidio (cosa più unica che rara, da parte sua), perciò feci cadere il discorso con un semplice «merda, che storia», e passammo a raccontarci le solite meravigliose e irrinunciabili scemenze.
Il podcast di Chiara Lalli e Cecilia Sala getta ombre nerissime su tutta l’inchiesta che ha portato Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone alla condanna, confermata (dopo l’annullamento del primo appello) in tre gradi di giudizio, per l’omicidio colposo di Marta Russo (Scattone in quanto esecutore e Ferraro per favoreggiamento personale). Tanto che da questo punto di vista Polvere può essere definito una vera e propria controinchiesta, che smonta tassello dopo tassello il teorema giudiziario della procura di Roma: dalla gestione, per così dire disinvolta, dei testimoni, all’eccessiva rilevanza data a prove tutto sommato modeste (tra cui le particelle di polvere da sparo rinvenute sul davanzale dell’aula assistenti dell’istituto di filosofia del diritto), fino al totale disinteresse dimostrato dagli inquirenti verso altre piste investigative che avrebbero dovuto essere quantomeno sondate (tra le quali quella piuttosto impressionante che fa riferimento a una sorta di poligono di tiro clandestino messo in piedi dagli inservienti di una ditta di pulizie impiegata nell’università).
Durante l’ascolto di Polvere ho ripensato spesso a quegli incontri con Ferraro, a quanto a fondo bisognerebbe andare nelle cose, in tutte le cose, prima di esprimere anche solo una parvenza di giudizio, e a quanto il desiderio di dare un volto al carnefice possa distorcere il buon senso a tal punto da procurare i danni peggiori. E riflettendo su tutto questo sì, mi sono sentito un po’ una merda.



La città dei vivi
di Nicola Lagioia con Alessia Rafanelli, Chora Media, 6 episodi


Nei minuti iniziali della prima puntata di La città dei vivi, Nicola Gioia — autore dell’omonimo libro e voce narrante del podcast — dice che tutti, a Roma, in un modo o nell’altro hanno conosciuto Mario Prato o comunque si sono imbattuti in lui. È una cosa che girava, lo ricordo bene, anche nei giorni successivi alla scoperta dell’orribile delitto di via Egidio Giordani, quartiere Collatino, in seguito al quale era stato massacrato il giovane Luca Varani. E ricordo altrettanto bene che pensai si trattasse di una di quelle approssimazioni un po’ a effetto che spesso si leggono negli articoli o si sentono nei servizi del tiggì. Tuttavia, avrei scoperto in breve tempo, mi sbagliavo. Il fatto che quasi tutti a Roma conoscessero Marco Prato era incredibilmente vero.
È l’inizio di settembre del 2016, l’omicidio di Luca Varani a opera di Marco Prato e Manuel Foffo risale a circa sei mesi prima, eppure mi ritrovo ancora a parlarne insieme a Giulia, Sara e Giulio nel corso di una cena nella loro casa di via dell’Aquila, al Pigneto. Ho appena raccontato ai miei amici del lungo giro in bicicletta che ho fatto all’Eur il giorno prima, alla ricerca dei luoghi simbolo di un altro epocale fatto di cronaca nera, la strage del Circeo. E così, per quell’ambigua fascinazione che certi delitti esercitano sul nostro immaginario, finiamo a parlare della mattanza del Collatino. È a questo punto che Giulio se ne esce dicendo che lui Marco Prato lo conosceva, perché anche Giulio, che tra le altre cose fa il dj, vive le notti come io vivo le mattine.
Mentre ascolto il racconto del mio amico penso tra me e me che allora, forse, questa cosa dei sei gradi di separazione non è una cazzata come ho sempre pensato. La rievoca anche Lagioia, che al delitto Varani ha dedicato un libro di grande successo, di cui ho sempre e solo sentito tessere le lodi e che sono sicuro sarebbe piaciuto anche a me, ma che non ho ancora letto, perché ostaggio dei miei pregiudizi. C’è qualcosa, lo ammetto, che mi ha disturbato nel modo in cui se ne è cominciato a parlare fin dal giorno del suo lancio, e nel tempo credo di aver messo a fuoco di cosa si tratta. È quell’insistere sulle leggendarie notti romane, sull’autocompiaciuta trasgressione capitolina, su quel contorno di nani, ballerine e retorica alla Jep Gambardella o alla Franco Califano che tanto fascino esercitano, imperituro, e che invece su di me provocano lo stesso effetto di un’attraversata in nave sul mare grosso dopo una notte trascorsa a bere grappe.
Anche nel bellissimo podcast, scritto da Lagioia in collaborazione con Alessia Rafanelli e prodotto da Chora Media, ho trovato un breve assaggio di quel compiacimento. Tuttavia il mio relativo fastidio è durato meno di un secondo, soverchiato dall’intensità e dalla maestria con cui l’autore mette in fila i tasselli di una storia di orrore indicibile, un buco nero assoluto che solo una città come Roma ha potuto attraversare senza esserne inghiottita.



Un uomo chiamato Diabolik
di Giovanni Bianconi con Mauro Pescio, voce narrante di Francesco Acquaroli, Chora Media, 6 episodi


Lo scorso 31 ottobre, a distanza di vent’anni dall’ultima volta, sono tornato a San Siro per vedere la mia Inter. Entrare in uno stadio è un’esperienza che mi ha sempre emozionato, ma farlo al Giuseppe Meazza, e dopo così tanto tempo, mi ha stordito: non ricordavo la pendenza degli spalti (ma forse perché con la vecchiaia soffro sempre di più le vertigini), né l’intensità dei rumori (l’incessante brusio degli spettatori, il gracchiare degli altoparlanti, i cori della curva), né il piacere di gustare un Borghetti nell’attesa del fischio d’inizio.
Per godermi tutto questo e altro, ho preso subito posto nel settore 223 del secondo anello rosso, leggermente defilato rispetto alla line di metà campo, e ho iniziato a guardarmi attorno. E subito, non poteva essere altrimenti, la mia attenzione è stata catturata dalle coreografie della Nord, e in particolare da due dettagli: lo striscione degli IRRIDUCIBILI all’estrema destra della curva, e l’enorme bandiera nera che sventolava al centro di essa, con la scritta DIABLO in rosso e lo sguardo corrucciato dell’eroe creato da Angela e Luciana Giussani. Omaggio di una parte dei tifosi nerazzurri, storicamente gemellati con quelli laziali, a Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, un «uomo che se muore non ci credere, perché è capace pure di rinascere».
All’incredibile parabola di Piscitelli, assassinato con un colpo di pistola alla testa da un sicario travestito da runner il 7 agosto 2019, mentre se ne stava seduto su una panchina del parco degli Acquedotti di Roma, Giovanni Bianconi e Mauro Pescio hanno dedicato un racconto appassionante e dettagliato, che ripercorre tappa dopo tappa la vita di un uomo dalla personalità multipla e dal profilo criminale sfaccettato, diventato quasi un brand della malavita: capo ultrà venerato dalle tifoserie di mezzo mondo, capace di mobilitare le masse che si riconoscono nell’identità ultras, ma anche narcotrafficante di spessore internazionale in una città «satura di droga»; premuroso padre di famiglia, amato e stimato da amici e conoscenti, ma anche, almeno secondo gli inquirenti, vertice di un’organizzazione criminale ramificata in grado di «darla a tutta Roma»; uomo impegnato nel sociale, promotore di iniziative solidali che spaziano dalla raccolta fondi per i terremotati di Amatrice alla distribuzione di pacchi alimentari per i meno abbienti, ma anche figura di garanzia degli equilibri di potere nella malavita romana, noto a tutti e capace di incutere timore.
Più persone nella stessa persona. Tanto da far dire agli uomini che indagano su di lui: «Lo troviamo spesso, lo troviamo dappertutto e lo troviamo sempre con un ruolo diverso. Chi era Fabrizio Piscitelli? Forse sarebbe più facile rispondere alla domanda: ma quanti erano i Fabrizio Piscitelli?».



Voci da Beirut
di Francesca Mannocchi, Chora Media, 8 episodi


Qualche settimana fa, in occasione della serata inaugurale di Le voci dell’inchiesta, ho assistito a un incontro con la giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi. Mi era già capitato di leggerla e ascoltarla, ma la forza e la lucidità del suo pensiero non mi erano mai arrivate in maniera così nitida e potente. Nel corso di quella serata, il suo racconto a voce tenue dei recenti sviluppi afgani ruotava intorno alla constatazione di quanto sia errato, fuorviante e ingiusto interpretare i fatti del mondo con i soli paradigmi della cultura occidentale, di quanti danni questo comporti e di quanto tempo sia stato a lei necessario per capirlo. Agli occhi della società afgana, si è chiesta e ci ha chiesto Mannocchi, i talebani sono sanguinari carnefici che hanno abbattuto una democrazia regolarmente eletta o valorosi partigiani che hanno lottato e vinto contro l’occupazione del loro paese? Il burqa che non è mai stato tolto dalla maggioranza delle donne afgane inquieta l’opinione pubblica locale allo stesso modo in cui inquieta quella occidentale? Chi racconta un contesto che non è il suo con quali occhi lo fa, e con quale fine? Quello di narrare con obiettività ciò che vede, sente, tocca? O quello di lisciare il pelo a chi leggerà l’articolo dall’altra parte del mondo?
In Voci da Beirut, un podcast molto diverso da quelli fin qui descritti, Mannocchi racconta un altro paese a lei caro, altrettanto martoriato dell’Afghanistan: il Libano. E lo fa attraverso non una, ma tante storie (organizzate in otto brevi episodi) che scandiscono il suo ultimo viaggio nella «ex cassaforte del Medio Oriente» oggi sull’orlo del baratro. Un paese grande poco più dell’Abruzzo, abitato da quattro milioni di persone (più due milioni di profughi siriani e palestinesi) e abbandonato nel corso degli anni da un numero di suoi (ex) cittadini quattro volte superiore, protagonisti della cosiddetta «grande diaspora libanese».
Il viaggio risale a circa un anno fa, pochi mesi dopo l’esplosione nel porto di Beirut dell’agosto 2020 che causò 214 vittime, oltre settemila feriti e un danno economico stimato tra i 4 e i 4,5 miliardi di euro. E ha come epicentro proprio la capitale del Libano, l’ex «Parigi del Medio Oriente» descritta in presa diretta da Mannocchi con in sottofondo i rumori delle sue strade e le voci dei suoi abitanti. Ma non solo Beirut. Il racconto si spinge fino ad Akkar, tra le regioni più povere del paese, dove il numero degli “sfollati” siriani all’interno dei campi informali supera quello dei cittadini libanesi. E fino a Baalbek, l’ex città del sole dell’impero romano, oggi roccaforte di Hezbollah e teatro di una strage che ancora sanguina. Perché, come diceva Lokman Slim, intellettuale assassinato da ignoti lo scorso 8 febbraio, «la memoria è un campo di battaglia».



P.S.: Da diversi mesi, oramai, una delle mie letture settimanali preferite è The Slow Journalist, «la newsletter di Slow News dedicata a chi abita e lavora nell’infosfera» (consiglio caldamente l’iscrizione). Nell’ultimo numero del 2021, tra le tante belle cose, un articolo di Gabriele Cruciata riprende una delle domande che mi sono posto negli ultimi mesi in merito proprio all’universo podcast: com’è possibile che questa mole di contenuti di qualità sia offerta gratuitamente? e, soprattutto, che tipo di conseguenze può provocare sul lungo termine abituare noi utenti a usufruirne senza sborsare un centesimo? Rubo solo un breve estratto della riflessione, per dimostrare quanto riesce a centrare il problema:

Buona parte dei migliori podcast giornalistici che ho ascoltato ultimamente è infatti gratuita. Parliamo di lavori lunghi mesi, con interviste esclusive, documenti riservati, sound design e musiche originali. Ed è tutto gratis.
C’è un bel lato in tutto questo. La gratuità consente infatti una diffusione molto maggiore di informazione di alto livello che altrimenti rimarrebbe esclusiva di una nicchia pagante. Ma è vero pure che tutto questo rischia di far abituare le persone alla gratuità. La qualità si paga, e se non la si paga alla lunga si rischia di ritrovarsi a bere solo vino annacquato (se non addirittura contraffatto).

Per leggere il resto basta seguire il bradipo.


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