19 maggio 1974 – Silvio Ferrari e la ragazza di Gladio

Il cadavere di Silvio Ferrari dilaniato dalla bomba, a pochi centimetri dalla Vespa 125 su cui trasportava l’ordigno che l’ha ucciso.

Nella notte del 19 maggio di cinquant’anni fa, Silvio Ferrari, ventunenne militante di Ordine Nuovo, saltava in aria in piazza del Mercato, nella sua Brescia, dopo aver parcheggiato la vespa 125 Primavera sulla quale stava trasportando mezzo chilo di tritolo. Pochi minuti prima una telefonata anonima aveva annunciata la presenza di un ordigno all’interno della discoteca Blue Note della città, ma l’allarme era rientrato.
Nessun allarme preventivo, invece, avrebbe messo in fuga la folla che riempirà piazza della Loggia nove giorni più tardi, quando un’altra bomba ordinovista ucciderà otto persone, di età compresa tra i venticinque e i sessantanove anni, e ne ferirà più di cento.


La misteriosa figura di Silvio Ferrari compare nelle prime righe di un libro bellissimo uscito poche settimane fa per il marchio Fuoriscena.
Si intitola La ragazza di Gladio, lo ha scritto il giornalista dell’Espresso Paolo Biondani,  e persegue un fine nobile e molto preciso: fornire le informazioni essenziali sulle stragi di stampo eversivo che hanno insanguinato l’Italia dal 1969 al 1980, e sulla strategia del terrorismo mafioso che ha continuato a colpire il nostro paese dal 1984 al 1993.
Per raggiungerlo, questo obiettivo, per raccontare «la trama nascosta di tutte stragi», l’autore parte proprio dal giovane Silvio e dalla sua fidanzata dell’epoca, la ragazza di Gladio:


Ha solo 17 anni, ma la sognano in molti, la corteggiano anche i trentenni, compreso Ermanno, il duro, lo spaccone con i soldi facili, che si atteggia a «nazista hitleriano» sfoderando un tatuaggio sul braccio con la scritta SS in lettere runiche. Anche lei si proclama fascista, ma sa pochissimo del regime dittatoriale di Benito Mussolini. Fa le superiori, senza troppa convinzione: è una studentessa che lavora, dopo la scuola aiuta i genitori a gestire il bar-pizzeria di famiglia. Che è diventato il centro di ritrovo degli amici estremisti di destra.


Tuttavia Silvio e la sua fidanzata non sono i veri protagonisti di questo racconto.
In particolare lei, scrive Biondani, è «un filo d’Arianna, una testimone involontaria che ha il pregio di condurci al centro del labirinto delle trame nere».
Perché a cinquant’anni di distanza dai fatti, quella ragazza, oggi donna, «è una teste importante nei processi sulla strage di Brescia, che sono ancora in corso».
Una donna che custodisce molti segreti del terrorismo neofascista e che, mezzo secolo dopo, nonostante la paura che non se ne va, ha deciso di parlare. E il suo racconto — ambientato in anonime caserme dei carabinieri frequentate tanto da figure istituzionali di primissimo piano quanto da ragazzini che sognano di fare la rivoluzionare nera — è incredibile:


Dalla strage di Brescia sono passati poco più di quarant’anni.
I processi a Maggi e Tramonte non si sono ancora conclusi, le indagini continuano. La ragazza di Silvio Ferrari è diventata una signora della buona borghesia bresciana. Non ha avuto vita facile, ma a poco a poco ha superato l’orrore di quel tragico 1974. Il carcere è un ricordo del passato. È uscita dai vecchi processi con sentenze di amnistia e prescrizione. Attaccata come falsa testimone, amica dei neofascisti e poi depistatrice, ma libera.
Le sentenze finali ne ridimensionano sensibilmente le colpe: riconoscono che era solo una pedina, che a truccare la scacchiera dell’antiterrorismo era l’allora capitano in carriera Francesco Delfino, promosso prima colonnello dei servizi e poi generale dei carabinieri, quindi caduto malamente in disgrazia per altri motivi. La sua gestione della prima istruttoria fu tanto depistante, come denunciano tutte le successive sentenze, che Delfino si è poi ritrovato imputato, vent’anni dopo, addirittura di complicità nella strage, prima di essere assolto in tutti i gradi di giudizio.
Lei, l’ex ragazza di Silvio, nel corso degli anni si è rifatta un’immagine, un nome, una professione. Lavora nella moda, fa la stilista. Ha sposato un industriale bresciano.
Ogni tanto, fino a qualche anno fa, la richiamavano a deporre in uno dei tanti procedimenti sulla strage. Lei si presentava e diceva il meno possibile, confermando che in passato era stata costretta ad accusare degli innocenti, ma senza spiegare il perché. Poi, il 2 settembre 2014, è morto Delfino. E lei ha cominciato a ritrovare la memoria.
Pochi mesi dopo, nel luglio 2015, i giudici di Milano hanno inflitto le prime, storiche condanne per la strage di Brescia, smascherando le complicità tra terroristi di destra e servizi segreti. La giustizia dimostrava finalmente di funzionare, di non piegarsi più ai poteri occulti. E il generale che la terrorizzava non c’era più. «Ora potresti parlare» le ha detto una sera il marito. Lei ci ha pensato molto.
E quando è stata contattata da un ufficiale inviato dalla procura, che le chiedeva di deporre nelle nuove indagini bresciane, con la speranza di scoprire altri complici dei due condannati, ha accettato. Perché nascondere la verità è brutto, doverlo fare per paura è un tormento. Per lei era già durato fin troppo. Il peso di quel passato a volte sembra schiacciarla ancora, quando interrompe gli interrogatori con crisi di nervi, ripensamenti, pause forzate, sfoghi.
Sono sempre i passaggi più delicati a concludersi con frasi come queste: «Le chiedo di chiudere il verbale, sono troppo tesa». «Non ho al momento intenzione di parlare del contenuto di quelle riunioni, sono troppo sconvolta.» «Ma cosa potevo fare? Ho accettato. Gliel’ho già detto, io sono viva per miracolo.»
Una confessione intima fa da premessa logica e misura la credibilità della fonte. «Io ho sempre nascosto ai magistrati che avevo avuto una relazione con Silvio Ferrari. Non ne ho parlato nemmeno ai carabinieri, ma questo ovviamente è ironico, perché loro sapevano perfettamente come stavano le cose.» Il racconto è progressivo, scandito in quaranta testimonianze nell’arco di due anni. Anche l’ufficiale che la interroga è dei carabinieri, deve guadagnarsi la sua fiducia, dimostrarle che l’Arma è cambiata, che oggi i reparti antiterrorismo lavorano per la giustizia, contro chi ha sporcato la divisa. La storia inizia proprio in una caserma, che è rimasta scolpita nella mente della testimone.


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