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18 aprile 1974 — Il sequestro Sossi

Una ricorrenza storica — i cinquant’anni, oggi, del rapimento del giudice Mario Sossi per mano delle Brigate rosse — ci fornisce l’occasione per tornare sullo straordinario saggio di Sergio Luzzatto, Dolore e furore, di cui abbiamo già parlato qui.



 

Arrivati a questo punto della storia, abbiamo detto abbastanza della funzione che Mario Sossi aveva svolto da anni sulla scena cittadina per non avere bisogno di spiegare quanto il magistrato potesse essere detestato dalla sinistra genovese. Né solo da quella: pochi mesi prima, il settimanale «L’Espresso» lo aveva definito «l’uomo più odiato d’Italia». Sequestrando Sossi, riuscendo a custodirlo senza inciampi per ben trentacinque giorni, sottoponendolo a un simulacro di processo, rendendo pubbliche le sue «confessioni», i brigatisti rossi si guadagnarono una visibilità e una reputazione che li pose, da quel momento in poi, al centro della ribalta sovversiva.
Con il rapimento Sossi, le Br cambiavano di scala e crescevano di ambizioni. Non colpivano più, in fabbrica o ai margini della fabbrica, un deposito di materiali o un’automobile, un capetto d’officina o un direttore del personale. Colpivano nella pubblica via un magistrato della Repubblica. E ingaggiavano su tali basi un corpo a corpo con lo Stato.
Nella prigione del popolo, Sossi fu fotografato davanti a una bandiera rossa con la stella a cinque punte. Fu poi mandato a processo, al termine del quale le Br chiesero, in cambio dell’ostaggio, la liberazione di otto detenuti della banda XXII Ottobre, dunque gli stessi che da pubblico ministero Sossi non aveva voluto riconoscere come criminali politici, che aveva tenuto a far condannare quali criminali comuni. A fronte dell’incapacità delle forze dell’ordine di esercitare un’azione di contrasto minimamente efficace, e a fronte della crescente drammaticità degli appelli lanciati dal collega prigioniero, i magistrati della corte d’assise d’appello di Genova si pronunciarono in favore dello scambio richiesto dalle Br: per la libertà provvisoria di Mario Rossi e compagni. Ma il procuratore generale della corte d’appello, Francesco Coco, rifiutò di firmare l’ordine di scarcerazione. A quel punto, le Br procedettero di loro iniziativa alla liberazione dell’ostaggio. Mentre Coco – che di Sossi, negli ambienti del Palazzo di giustizia, era stato sempre considerato il mentore – rilasciava dichiarazioni durissime, trattando il suo ex pupillo alla stregua di un povero di spirito.
Durante le cinque settimane in cui Sossi rimase prigioniero delle Br, gli inquirenti genovesi non cavarono un ragno dal buco. Non che rimanessero inoperosi. Oltre alle normali operazioni di intervento sul territorio, dai pattugliamenti ai posti di blocco, furono compiute a Genova decine e decine di perquisizioni domiciliari: a cose fatte, un elenco della Questura ne avrebbe contate sessantacinque. In particolare, gli inquirenti presero di mira personaggi ricorrenti in questa storia. Fra le abitazioni dei dirigenti locali di Lotta continua, perquisirono quelle di Andrea Marcenaro, Enzo Masini, Bruno Piotti. Entro il gruppo fainista di via Balbi, furono visitate le abitazioni di Marco Codebò, Giorgio Guano, Giorgio Moroni, Giuliano Naria (non quelle di Gianfranco Faina e Riccardo Degl’Innocenti, a dispetto di regolari mandati, perché entrambi i padroni di casa si resero irreperibili). In sostanza, l’Ufficio politico della Questura lavorò con solerzia, ma senza fantasia. Interpretò le critiche feroci che l’estrema sinistra genovese aveva riservato per anni al giudice Sossi come un indizio a carico nell’affaire del rapimento. Mentre poco o nulla la Questura fu capace di mettere insieme sui terroristi venuti da fuori Genova per colpire Sossi con la freddezza di una nemesi.


Sergio Luzzatto, Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse, Einaudi, 2023, pp. 237-239


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