Un fine settimana a Brexstol

Sto per trascorrere la notte del 31 gennaio in Inghilterra, a Bristol, per celebrare un commiato. Nulla a che vedere con il divorzio tra Gran Bretagna ed Europa, no. Sono qui per festeggiare il prossimo addio alla città di un amico che dopo quindici anni trascorsi sulle sponde dell’Avon sta per trasferirsi in Francia.
Quando ho comprato il biglietto, un paio di settimane prima della partenza, non ho fatto molto caso alla coincidenza: negli ultimi mesi l’argomento Brexit è quasi del tutto scomparso dai titoli dei giornali, soppiantato da altre emergenze. Eppure, con l’avvicinarsi della data, la possibilità, del tutto imprevista fino a pochi giorni prima, di essere testimone di un evento a suo modo storico ha smosso qualcosa nella mia voglia di esserci e di guardarmi intorno. Ci sarà un evento di piazza, con megaschermi pronti a trasmettere il discorso alla nazione di BoJo? O per ascoltarlo la gente si radunerà nei pub, chi sventolando l’Union Jack, chi la bandiera con le stelle gialle su sfondo blu? Riuscirò a trovare da qualche parte quella sciarpa con su scritto ALWAYS UNITED che ho visto esibire dai deputati del parlamento europeo? E quella Bristol che nell’ormai lontanissimo 23 giugno 2016 ha votato a grande maggioranza per il REMAIN farà sentire la sua voce un’ultima volta?



Non è ben chiaro cosa dobbiamo attenderci, le notizie che arrivano dalla città virano verso un generale stato di indifferenza: la gente è stanca, non ne può più di questa storia, basta solo che si decida una volta per tutte, tanto per i prossimi undici mesi non cambia niente, poi si vedrà… E poi mica siamo venuti qui per fare un reportage sulla notte della Brexit. Noi siamo venuti qui per dire arrivederci a Bristol onorando il rito del pub crawl.
Sono almeno cinque le caratteristiche di questa usanza britannica — che, in poche parole, consiste nello spostarsi da un pub all’altro, preferibilmente tra amici ma anche da soli, e trascorrere così una serata molto gradevole tra chiacchiere, birre e musica — che mi piacciono molto. Il pub crawl:

1. consente di conoscere la città in cui ci si trova attraverso quella splendida istituzione sociale (ma anche architettonica) che è il pub inglese (a Bristol, come vedremo, ce ne sono di bellissimi e molto diversi tra loro);
2. permette, come logica conseguenza del punto 1, di apprezzare in tutte le sue infinite declinazioni un altro irrinunciabile fondamento della cultura britannica: la birra;
3. richiede, come logica conseguenza del punto 2, di essere espletato a piedi, quindi in una modalità molto lenta e rilassata (da cui to crawl, ovvero “avanzare lentamente”, “procedere a rilento” o, nel peggiore dei casi, “gattonare”, “strisciare”: perché a inizio serata lo sguardo è lucido e il passo fermo, ma sempre un po’ meno con l’andare delle pinte);
4. favorisce la chiacchiera casuale con perfetti sconosciuti (ma questo punto può essere foriero di incontri tanto interessanti quanto drammatici);
5. spesso offre la possibilità di bere e chiacchierare con dell’ottima musica in sottofondo (dettaglio per niente scontato se pensiamo a quello che in genere si ascolta nei locali di casa nostra).

Il nostro pub crawl inizia intorno alle 4 pm dal Cadbury di Richmond Road, nel quartiere di Stokes Croft, e non contempla molti margini di improvvisazione. Entro le 11 pm locali, ora in cui BoJo saluterà il Vecchio continente per traghettare il paese verso nuovi e perigliosi lidi, dobbiamo visitarne altri sei, e in lista ci sono pub che vengono annunciati come autentiche chicche, tra cui: il Wiper and True, che più che un pub è un vero e proprio brewery, con tanto di gigantesche botti in acciaio sullo sfondo e il pavimento in cemento costantemente bagnato; il Miner’s Arm, dove veniamo accolti da un misterioso cartello appeso alla porta d’ingresso — LYNDON’S WAKE FROM 3 TO 6 PM— che in un istante mi proietta in una puntata della mia seria tv preferita di sempre (esatto: nella sala adiacente a quella principale gli amici del fu Lyndon, la cui foto incorniciata campeggia sul grande tavolo ricolmo di formaggio Stilton, gli stanno davvero tributando l’ultimo saluto); e il Duke of York, con la sua atmosfera intima e raccolta, resa ancora più calda dalle decine di piccole luci che illuminano gli interni.
Al Duke ci arriviamo dopo aver percorso una stretta stradina che affaccia sugli orti comunali della città, dove una Union Jack garrisce al vento.



È il primo dettaglio visivo della giornata che mi riporta a quello che succederà tra qualche ora. Mi ero completamente dimenticato della Brexit Night, e del resto l’atmosfera della città a tutto farebbe pensare tranne al fatto che tra qualche ora finirà un’era e ne comincerà un’altra. O forse sono io che sto dando troppa importanza a quello che, in effetti, è poco più che un atto simbolico. Sta di fatto che se non ci fosse stata quella bandiera in mezzo all’orto avrei continuato a pensare ai fatti miei, come all’ultima volta, per esempio, che sono stato al Duke of York, più di un anno fa, e a quanto mi era piaciuto bere seduto accanto al caminetto a lato del bancone.



Anche questa sera l’atmosfera invoglierebbe a sostare più del previsto, ma il tempo stringe e per chiudere il cerchio e completare il programma della prima giornata occorre raggiungere un’altra meta: l’Hillgrove Porter Store, l’ultimo pub prima di andare a dormire.
Risaliamo a fatica la collina di Stokes Croft, non ho ben presente che ore siano, il tempo sembra essersi polverizzato come l’attesa della Brexit. Che invece, come una subdola arpia, ritorna all’improvviso proprio quando meno te l’aspetti, e per di più camuffata nelle rassicuranti spoglie di uno spettacolo pirotecnico che si staglia nell’orizzonte buio e lontano, in qualche punto non meglio identificato della città. Sono da poco trascorse le 11 pm e i fuochi d’artificio sono lì a certificare quello che il Guardian, questa mattina, ha definito “il più grande azzardo di una generazione”: dopo quarantasette anni la Gran Bretagna non fa più parte dell’Europa.



Il giorno dopo, il peso dell’evento storico è stato sostituito da quello che opprime la testa al risveglio. Ma è sufficiente una breve passeggiata mattutina e una sana colazione locale per tornare come nuovi in attesa che inizi l’evento che occuperà buona parte del pomeriggio: Galles-Italia di rugby, prima partita dell’annuale edizione del Sei Nazioni, che ci apprestiamo a vedere seduti sugli sgabelli del Cat&Wheel di Cheltenham Rd.



Non sono un appassionato di rugby, a stento ne conosco le regole, ma so che loro, i gallesi, sono molto forti, mentre noi, gli italiani, meno. Pertanto mi sorprende non poco il pronostico dell’amico in procinto di trasferirsi: “Oggi possiamo farcela”. Ma la speranza, si sa, è come il vento, tanto che dopo pochi minuti siamo già sotto 13 a 0 e il match, per come si è messo, non promette nulla di buono.
Mi guardo intorno. Il Cat&Wheel non è bello come i pub che abbiamo visitato ieri, ma un certo suo fascino ce l’ha, se non altro per quell’afrore misto sudore-piscio-curry che aleggia nella sala principale.
Mi distraggo e mi metto a pensare a Guido. È più forte di me: ogni volta che guardo il rugby o ne sento parlare, la prima persona a cui penso è il professor Guido Bulla, ordinario di Lingua e letteratura inglese alla Sapienza di Roma, traduttore di William Shakespeare e George Orwell, nonché indimenticato compagno di colazioni romane per una decina d’anni.
Guido è stato la persona più brillante e divertente che abbia mai conosciuto e mi manca molto. Lo associo al rugby perché il primo libro a cui lavorammo insieme — lui in qualità di traduttore in compagnia della figlia Irene, io in quella di revisore — fu un romanzo ambientato proprio nel mondo della palla ovale: Il campione (This Spoting Life) di David Storey, settimo titolo della collana Attese di 66thand2nd, da cui Lindsay Anderson trasse un film.
Ricordo che, al termine di quel lavoro, Guido ce l’aveva a morte con la signora Hammond, la cupa vedova presso cui alloggia il protagonista del romanzo, Arthur Machin, operaio metalmeccanico e giocatore di rugby nell’Inghilterra del Nord degli anni Sessanta, quando i giocatori per squadra erano ancora 13 e dopo ogni partita si infilavano in grandi vasche ricolme d’acqua e ghiaccio, nel tentativo di alleviare il dolore che pulsava in ogni parte del corpo. E ce l’aveva con la signora Hammond, Guido, perché quella donna era il suo esatto contrario: sempre triste, sempre incazzata con il mondo, sempre pronta a trascurare il bello per fare posto al brutto. Guido no: bastava una colazione di venti minuti in sua compagnia e la giornata non poteva partire che con il piede giusto.



I gallesi in sala esultano, la loro nazionale ha appena segnato un’altra meta e per di più dopo un incredibile assist da sotto le gambe di un loro giocatore: una cosa più da Nba che da Sei Nazioni. Non ho mai capito se a Guido il rugby piacesse o meno, ma so per certo che lavorare insieme a quel libro ci divertì tantissimo.
Come mi divertii io quella volta che lo ascoltai quasi in apnea tenere una lezione sulla poetica di George Orwell — di cui curò l’edizione dei Meridiani traducendo, tra le altre cose, La fattoria degli animali e l’intera sezione “Racconti e saggi autobiografici” —, in quella specie di sottoscala in via dei Serpenti, a Roma, dove collaboravo alla conduzione di un corso sulla traduzione letteraria. E quindi il professor Bulla mi è di nuovo tornato in mente alcune ore dopo la partita (che l’Italia, per la cronaca, ha perso 42 a 0) quando, usciti dal Cat&Wheel, abbiamo raggiunto la sede bristoliana di Rough Trade, dove l’occhio mi è caduto subito su un volumetto di George Orwell che sembra fatto apposta per i pensieri un po’ caotici e annebbiati di queste ore.



«Terremoti in Giappone, carestia in Cina, rivoluzioni in Messico? Non preoccupiamoci, il latte sarà sulla porta di casa domattina, il New Statesman uscirà puntuale venerdì»: così il buon George ironizzava sulla società inglese del suo tempo, «il più mite paesaggio del mondo», impassibile di fronte a quanto accade intorno a essa. Sarà forse per questo che ieri notte non è successo niente? E sarà forse per questo che oggi, il primo giorno dell’Inghilterra fuori dall’Europa, sembra uguale a ieri? E se ieri non è successo niente, e oggi neppure, figurati se succederà qualcosa domani che è domenica, il giorno più immobile della settimana.
Però domenica almeno non piove e così si può passeggiare lungo il fiume, per rischiarare un po’ la mente anche grazie a una bella colazione con pane tostato, burro e marmellata di fragole al Broken Dock. Prima di dedicarci a un altro grande rito locale, abbiamo anche il tempo di attraversare l’Avon a bordo di una barchetta per risalirlo sull’altra sponda, costeggiando la vecchia ferrovia del porto dove ora stazionano locomotrici e vagoni dal contenuto minaccioso.



Domenica, in Inghilterra, fa rima con arrosto. E per adempiere con onore al secondo grande rito del weekend, il Sunday Roast, scegliamo un posto molto bello, la Volunteer Tavern di New Street. Il locale è piccolo e affollato, ma il giardino esterno è così spazioso da contenere tutti. Però la fila per la birra tocca farla, anche se una volta giunti al bancone il tempo speso in coda è ben ripagato: sia perché la ragazza addetta alle ordinazioni conferma il fatto che quest’anno, in Inghilterra, va molto di moda uno dei miei colori preferiti, il giallo senape; sia perché accanto alle birre noto due tazze divertenti.



Maledetta Brexit del cazzo, penso tra me e me. All’apparenza non se la fila nessuno, eppure ricompare ovunque, appena abbassi la guardia e anche di domenica, quando ti appresti a mangiare arrosto, cavoli, verze, carote lesse e patate dolci tutto in un unico piatto, e sei preoccupato solo per quello.
Non mi è piaciuto il Sunday Roast, proprio no, ma l’ho finito tutto. E la ricompensa è stata una lunga sessione di birre in uno dei miei pub preferiti, il minuscolo e accogliente Bridge Inn, da dove il faccione di Jimi Hendrix, che occupa entrambi i piani della palazzina, veglia sulla città con sguardo stralunato.



L’aereo che ci riporta a Venezia decolla alle 6.30 del mattino di lunedì. Mi aspettano tre ore di sonno e un lungo viaggio che dalla laguna mi dovrà riportare nella pedemontana friulana a bordo di un trenino che corre su binario unico.
Una volta in cielo cerco di finire un libro di Emmanuel Carrère che sto odiando, ma mi innervosisce così tanto che ci rinuncio. Indosso le cuffiette, avvio Spotify e cerco di prendere sonno mettendo in ordine i pensieri che mi serviranno per scrivere un piccolo resoconto di questo lungo e strampalato fine settimana trascorso a Brexstol.

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