La traversata

Nelle ultime settimane mi ha tenuto compagnia un libro molto bello: La traversata, di Philippe Lançon.



La mattina del 7 gennaio 2015 Philippe si trovava nella sede di Charlie Hebdo, a scherzare e a discutere dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq con i suoi amici-colleghi di redazione. Poi sono entrati i fratelli K a compiere la mattanza che tutti conosciamo e alla quale Philippe è riuscito a sopravvivere, ma senza più la parte inferiore del viso, portata via dai colpi di kalashnikov.
Da quel giorno iniziava per lui un’odissea ospedaliera che sarebbe durata nove mesi, durante la quale, in seguito a quindici interventi chirurgici, la sua faccia è stata ricostruita e rieducata. E La traversata è proprio il racconto di quella mattina di orrore e di quei mesi sospesi e muti, trascorsi tra  sofferenze del corpo e dell’anima solo in parte alleviate dall’affetto dei cari e del personale medico. E sotto lo sguardo discreto ma vigile degli onnipresenti agenti di protezione.


Philippe Lançon

Sciagura ha voluto che la lettura delle ultime pagine del libro sia stata scandita dalla stessa nauseante violenza di quel 7 gennaio. Prima l’omicidio del professor Samuel Paty a Parigi, lo scorso 16 ottobre, omaggiato con una cerimonia da cui mi sono ripreso a fatica; poi l’attentato di questa mattina a Nizza. E le vignette di Charlie Hebdo sempre sullo sfondo, quelle ormai passate — ma per alcuni ancora oggi motivo di scandalo e risentimento e quelle nuove, che sembrano destare la stessa furia.



Allora per trovare, se non proprio una spiegazione, almeno un conforto al cospetto di tanto delirio ho pensato che forse bisogna tornare proprio al vecchio Michel Houellebecq che compare sia, come già detto, nelle prime pagine della Traversata sia nelle ultime, quando Lançon, ormai quasi in procinto di essere dimesso dall’ospedale, partecipa alla sua prima uscita nel bel mondo di un tempo.


Con la bella stagione le uscite si moltiplicavano. Una sera sono andato alla mia prima serata mondana, una festa data da un’amica del mondo editoriale sul tetto del museo della Marina. A giudicare dalle pietre spaccate e dai muri screpolati, quel tetto su vari livelli sembrava abbandonato. Qua e là erano spuntate erbacce. In quel luogo, più che presenziare a un cocktail da cinquantenne sopravvissuto avrei preferito avere sette anni e giocare a Robinson Crusoe. Guardavo ogni angolo immaginando un nascondiglio, una capanna. Mi sono imbattuto in scrittori che non vedevo da un pezzo e ai quali non sapevo bene che dire. I pasticcini mi erano vietati così bevevo champagne. Gli agenti si erano messi in un angolo insieme a quelli di un altro protetto, Michel Houellebecq, l’uomo che il 7 gennaio era stato il nostro ultimo argomento di discussione. Ci siamo stretti la mano. Sembrava distrutto, minerale e compassionevole. Il suo sorriso si fermava sull’orlo della smorfia. Con la sua faccia senza età e senza sesso, col suo aspetto da feticcio bruciacchiato, sembrava radicato là dove si trovava. Ho pensato che chiunque prendesse su di sé con altrettanta efficacia la disperazione del mondo era costretto a risalire il tempo fino a mettersi nella pelle di un dinosauro. Era l’animale che avevo in quel momento davanti agli occhi, e mentre ci scambiavamo qualche parola abbastanza incomprensibile sull’attentato e sui morti mi ha guardato fisso e ha detto questa frase di Matteo: «Il regno dei cieli è preso a forza e i violenti se ne impadroniscono». Pochi minuti dopo me ne sono andato.

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