7 gennaio 2015 — Charlie Hebdo


Cinque anni fa, a Parigi, un attentato di matrice jihadista contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo provocava dodici vittime: il direttore Stephane Charbonnier, detto Charb, e la sua guardia del corpo; i collaboratori Georges Wolinski, Philippe Honoré, Cabu e Tignous; il curatore editoriale Mustapha Ourrad e la giornalista Elsa Cayat; Michel Renaud, fondatore del festival Rendez-vous du Carnet de voyage, l’economista Bernard Maris, l’addetto alla manutenzione Frederic Boisseau e l’agente di polizia Ahmed Merabet.
Autori della strage furono i fratelli franco-algerini Saïd e Chérif Kouachi, entrambi uccisi il 9 gennaio successivo dagli uomini dell’unità d’élite della gendarmeria francese.

Nel suo ultimo libro, Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani (in uscita il prossimo 30 gennaio per Luiss University Press), Deborah Lipstadt ricorda la presa di posizione assunta nei giorni successivi da alcuni intellettuali che, stigmatizzando il taglio oltraggioso della rivista, quasi si rallegrarono per la sorte toccata alle vittime.
E con identica amarezza rievoca il misero boicottaggio subito nel giugno di quello stesso anno dal premio PEN, che aveva deciso di assegnare a Charlie Hebdo l’annuale Freedom of Expression Courage Award:

Il premio sarebbe stato consegnato ai due redattori sopravvissuti della rivista, entrambi arrivati al lavoro in ritardo la mattina della strage. Sei scrittori, membri del PEN, hanno protestato e annunciato che non avrebbero né presentato il premio né partecipato alla cena. Dopo aver dichiarato che gli omicidi erano stati causati dalla povertà e dalla mancanza di potere politico, uno dei boicottatori ha criticato “l’apparente cecità del PEN nei confronti dell’arroganza culturale della nazione francese, che non riconosce il suo obbligo morale verso un segmento vasto e impotente della sua popolazione”. Un altro ha criticato in modo impreciso Charlie Hebdo per aver promosso “una visione laica forzata”. […] Uno dei redattori sopravvissuti ha espresso nel migliore dei modi questa visione all’incontro del PEN, quando ha detto: “Rimanere scioccati fa parte del dibattito democratico. […] Rimanere uccisi no”.

Io invece ricordo molto bene la mattina del 14 gennaio 2015, quando nella mia edicola di fiducia gestita da una simpatica signora dell’Est Europa in via di Torpignattara comprai una copia del Fatto Quotidiano solo perché quel giorno usciva con allegato il primo numero di Charlie Hebdo stampato dopo la strage.
In copertina la caricatura di un commosso Maometto reggeva un cartello con su scritto «Je suis Charlie», sormontato dal titolo «Tout est pardonné». Quel numero lo conservo ancora.

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