Vladimir Tatlin e il sogno dell’operaio volante

Nei romanzi di Salgari e nei disegni di Robida l’uomo avrebbe conquistato il cielo con le macchine volanti, ma questa, per il momento, rimaneva una fantasia letteraria. Per gli artisti che invece avevano aderito alla rivoluzione, la fusione di arte e tecnica avrebbe potuto portare alla realizzazione di un’utopia aerea. Nella Russia degli anni Venti del Ventesimo secolo vennero realizzate ricerche rivolte verso l’introduzione del volo nella vita quotidiana.
Pëtr V. Mituric aveva eseguito una serie di studi sui movimenti ondulatori e, intorno al 1921, aveva progettato un oggetto volate chiamato Kryl’ija (“ala”). Tatlin lavorò anche a un apparecchio che avrebbe librato nel cielo l’operaio sovietico, il Letatlin, mezzo di trasporto volante ecologista, pensato per decongestionare il traffico del futuro e portare gli operai alle fabbriche.

Sono bastate queste poche righe tratte dal saggio di Daniele Porretta L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (in uscita per Luiss University Press: qui una bella intervista all’autore), per farmi innamorare del Letatlin.


Vladimir Evgrafovič Tatlin (1885-1953)

Nato dalla visionaria immaginazione dell’architetto, pittore e scenografo Vladimir Evgrafovič Tatlin, il Letatlin — crasi tra il verbo russo letat, “volare”, e il cognome del suo ideatore — avrebbe dovuto essere una macchina volante, più precisamente un ornitottero, di uso comune al servizio dell’operaio bolscevico, «per liberarlo dalla schiavitù dell’attrazione gravitazionale, permettendogli viaggi volanti in base alla sua sola forza muscolare» (Luca Conti, Il Letatlin, la bici aerea).
Un elegante e armonico compromesso tra le pulsione artistiche di Tatlin, la sua attenzione alla forma e ai materiali, e il costante anelito all’innovazione tecnica e al progresso scientifico proprio della sua epoca, ma perfettamente coerente con lo spirito di quel costruttivismo russo — movimento di cui Tatlin, insieme al pittore e fotografo Aleksandr Rodčenko, fu tra i fondatori — secondo il quale «l’arte deve partecipare alla vita e alla costruzione del mondo» e deve perciò essere pratica, funzionale e al servizio della collettività. Fino ad arrivare, addirittura, a restituire all’uomo la facoltà di volo.
Restituire, sì. Perché secondo il Da Vinci russo l’atto di volare è un’esperienza umana primordiale, «che ci è stata sottratta dal volo meccanico dell’aeroplano»; una facoltà andata perduta nel corso dell’evoluzione dell’essere umano, e di cui ora dobbiamo riappropriarci, combinando il progresso della tecnica all’osservazione della natura.

[L’idea che anche l’uomo possa volare] è vecchia di mille anni, risale al tempo di Icaro. Sono partito da una forma organica. Ho osservato come imparano a volare le giovani gru. Ne ho catturate alcune e, osservandole, ne ho tratto un insegnamento. All’inizio, le giovani gru sono impotenti di fronte al vento, proprio come gli esseri umani. Io voglio ridare all’uomo il senso del volo, cancellato dall’avvento del volo meccanico.

Ai tempi in cui prestava servizio come marinaio, il giovane Tatlin per giorni e giorni aveva osservato  i gabbiani volteggiare sopra la sua nave, e negli anni successivi aveva dedicato molte energie allo studio anatomico degli uccelli, sezionati in gran numero per analizzarne muscolatura e struttura ossea, «al fine di calcolare il necessario rapporto tra la massa corporea e l’apertura alare che consentisse di replicare la forza e la flessibilità delle loro ali e la capacità di stare in volo».

Il mio apparato tecnico si basa sull’utilizzazione delle forme organiche proprie degli esseri viventi. L’osservazione di queste forme mi ha portato alla conclusione che quelle più estetiche sono anche le più economiche. L’arte in questo senso è: lavoro e processo di conformazione dei materiali.

Il risultato di questo studio — concretizzatosi tra il 1929 e il 1932 all’interno del monastero di Novodevičij di Mosca messogli a disposizione dal Narkompros, il Commissariato popolare per l’istruzione — fu una «bicicletta dell’aria» di 847 x 634 centimetri, pesante 32 chilogrammi, con una superficie alare di 12 metri quadrati e un rapporto fra peso delle ali e peso totale di circa 1:6, pari a quello di gran parte degli uccelli.
Pensato e costruito, con il contributo dei suoi allievi A.S. Sotniko e I.V. Pavilionov, in tre esemplari, il Letatlin assemblava legni di diverso tipo, pelli di bue, sughero, cavi d’acciaio e addirittura un osso di balena, ed era ricoperto con morbida ma resistente seta da paracadute. Molto più leggero ed elegante dei veicoli a motore fino a quel punto progettati dagli ingegneri aeronautici, univa i pedali alle ali e avrebbe dovuto essere guidato da un pilota sdraiato, in grado di azionare leve e pedali con la propria forza muscolare: «L’emblema della possibilità che oggetti apparentemente complessi» scrive Luca Conti, «possono essere ricondotti a materiali e princìpi costruttivi tutto sommato semplici, e a forme più elementari, derivate da quelle organiche».


Riproduzione del Letatlin in mostra alla Moderna Museet Collection di Stoccolma (© Tomislav Medak/CC DI 2.0)

Quando osservo questa foto e rifletto sull’idea di leggerezza che trasmette, mi viene in mente quanto diceva un altro eroe del volo, Roland Garros, rispetto ai motivi che lo spingevano a rischiare la vita a bordo delle improbabili macchine volanti di inizio secolo, per compiere voli radenti il suolo che spesso si concludevano prima del previsto con atterraggi catastrofici, apparecchi distrutti e vite spezzate nel fiore degli anni. Nelle sue splendide memorie, raccolte e pubblicate l’anno scorso dalla casa editrice 66thand2nd con il titolo L’uomo che baciava le nuvole (traduzione di Marco Lapenna), Roland Garros scriveva: «Ormai mi alzavo dal letto soltanto per volare. […] Sentivo una ripugnanza istintiva per il peso».
Un irresistibile anelito alla lievità che durante in suoi voli si traduceva in istanti di pura grazia, come questo, congelato durante la seconda tappa dell’attraversata Parigi-Madrid:

Per la prima volta ammiravo lo spettacolo abbagliante del mare di nuvole. Sopra di me soltanto il cielo blu, di una purezza ideale. Alla mia sinistra il sole, ma un sole diverso da quello che si vede da terra – al suolo, vapori invisibili smorzano i raggi di luce scomponendoli e offuscandoli. Ma in alto… solo luce vergine nell’aria vergine. Anche solo guardare e respirare dà l’ebrezza.
Correvo sui flutti immobili di un oceano d’argento. Se mi avvicinavo, il mare di vapore si complicava in paesaggi labirintici; una babele di rocce, grotte, valli e precipizi. Con le ali sfioravo le creste di picchi vertiginosi, sorvolavo abissi inondati di bianco.
Era come un sogno che si spiegava nella mia testa. Il ricordo della vita quotidiana galleggiava remoto e fluido. I violini di Armenonville continuano a cantarmi dolcemente all’orecchio: «Sto tanto bene vicino a te».


Roland Garros (1888-1918)

Non sappiamo se il venticinquenne Tatlin — mentre Garros, nel giugno del 1911, sorvolava la confluenza della Garonna con la Dordogna diretto a San Sebastián — stava già pensando al suo Letatlin. Quel che è certo è che, anni dopo, quando cominciò a esporre la sua opera e a parlarne in pubblico, il dibattito che ne scaturì converse intorno a un quesito di fondo: che cos’è, il Letatlin? Arte o tecnologia? O tutte e due le cose insieme? O nessuna delle due?
È a questo punto, siamo agli inizi degli anni Trenta del Ventesimo secolo, che la fortuna di Tatlin comincia a vacillare, e proprio in corrispondenza della sua massima esposizione pubblica, coincisa con una mostra delle sue opere, tra cui i tre modelli del Letatlin, organizzata al Museo delle Belle arti di Mosca nel 1932.
In occasione di una serata di presentazione dell’evento tenuta da Tatlin al Circolo degli scrittori di Mosca il 5 aprile, il giornalista e critico letterario del quotidiano Vecernaja Moskva (Mosca Sera) Kornelij Zelinskij scriveva un durissimo articolo, citato in appendice al saggio di Fernando Clerici Appunti sul “Letatlin”, contro quello che definiva «un grande uccello bianco senza testa».
Accusando gli esponenti del movimento costruttivista, di cui peraltro era stato tra gli estimatori, di una pericolosa connivenza con altri «abbellitori della borghesia capitalistica», Zelinskij imputava a Tatlin un velleitarismo artistico-individualista fine a sé stesso:

Se il Letatlin è un apparecchio progettato per il volo, esso deve poter volare e se non è in grado di farlo diventa un semplice giuoco. […] L’individualismo tecnico e le invenzioni isolate di un individuo desideroso di indagare su ogni cosa celate nelle pieghe sconosciute della natura, se paragonate al lavoro dei nostri istituti scientifici, […], somiglia a una specie di artigianato casalingo. Per questo si ha più fiducia in una macchina collaudata dall’Istituto di aeronautica che in ciò che oscilla appeso alle volte del monastero di Novodevicij, esposto al vento delle Colline di Lenin.

E altrettanto feroce fu l’invettiva del giornalista in merito alla deviazione ideologica compiuta da Tatlin nel suo approccio alla tecnologia, condotto lungo una via «che ci sembra strana, tortuosa ed errata».

Partendo da considerazioni astruse di ordine filosofico, secondo le quali il Letatlin avrebbe dovuto volare, si era finiti per rispecchiare ideologie di carattere reazionario: adorazione della natura, terrore della macchina, adattamento della tecnologia alla sensibilità dell’individuo, fede ingenua nella perfezione delle forme organiche: un’evasione dal mondo industriale.

Quello di Zelinskij, tuttavia, non era un attacco sprovveduto, quanto, piuttosto, perfettamente in linea con il profondo cambiamento di rotta che stava interessando la politica culturale del regime nel suo complesso, dopo la pubblicazione del decreto di Stalin Sulla ricostruzione delle organizzazioni letterarie e artistiche (1932), che sanciva la fine del sogno avanguardista di un’arte al servizio del popolo, nel nome del nuovo realismo che la poneva sotto il controllo del Partito comunista.

Riproduzione del Letatlin a opera di Jürgen Steger, 1991

Nel nuovo e più buio clima alle porte, non stupisce che il sogno di Tatlin fosse destinato a sciogliersi come cera la sole. Tanto che il Letatlin non riuscì mai nell’intento di staccarsi dal suolo, anche se a proposito le versioni non sono perfettamente allineate, e le risposte alla domanda ma insomma, il Letatlin volò o non volò? divergono in particolari non proprio trascurabili.
Nell’articolo “Il Letatlin” pubblicato il 18 marzo 1967 sulla rivista Sovetskaja Kultura, la storica Alina Abramova  accenna ad alcuni collaudi parziali svoltisi presso il villaggio di Salkoe, non lontano dalla cittadina di Zvenigorod, lungo il fiume Moscova, a una cinquantina di chilometri da Mosca, durante i quali «il congegno alato si sollevò fino all’altezza di cinque metri, tentando di salire ancora più in alto (glielo impediva un cavo)» e convincendo così i presenti che «l’uccello di Tatlin poteva effettivamente volare».
Fernando Clerici, al contrario, sicuro che il Letatlin non fu mai testato all’aperto, racconta di una sorta di funerale simbolico del mezzo, con una piccola processione per le vie di Mosca, datata 1937, durante la quale Tatlin e un gruppo di amici e collaboratori si congedarono dai loro sogni esibendo per l’ultima volta il loro manufatto.
E anche la giornalista Maria Antonova sembra escludere l’ipotesi che ci sia mai stato un vero e proprio collaudo, anche se, sostiene in un intervento pubblicato da Atlas Obscura, una prova sul campo era stata programmata, ma dovette essere annullata a causa dei danni subiti dal Letatlin durante il trasporto dal monastero al luogo prescelto.
Non c’è dubbio alcuno, tuttavia, che l’ipotesi, o sarebbe meglio dire la suggestione, che più affascina sia quella avanzata da Luca Ricci: non solo ci fu un vero e proprio collaudo dall’esito semi-disastroso, ma quel fallimento sarebbe da attribuire a una sorta di autosabotaggio, o meglio a un karakiri, dello stesso Tatlin, del tutto consapevole che la prova di volo della sua creatura sarebbe stata un fiasco, eppure determinato a darne seguito in pubblico come forma di protesta nei confronti dell’ostracismo di cui era rimasto vittima il movimento costruttivista. Quel giorno, scrive Luca Conti, Tatlin era ben consapevole che la sua bicicletta dell’aria non avrebbe superato l’esame, eppure «affrontò coscientemente il suo fallimento, che al contempo fu il fallimento della sua idea costruttivista di arte nell’Unione Sovietica».

Icarò fallì, volando troppo in alto e avvicinandosi troppo al sole; Tatlin fallì rimanendo incollato al suolo e facendo di questo fallimento la sua performance finale.


Vero collaudo o funerale simbolico? (© Fine Art Images/Heritage Images/Getty Images)

È impossibile resistere al fascino di questa ipotesi, quindi verrà qui adottata come epilogo di questo breve omaggio a una sfida impossibile. Senza dimenticare, tuttavia, che dei tre modelli di Letatlin realizzati dal suo inventore, due sono andati completamente perduti, mentre il terzo è miracolosamente in vita, ed è possibile ammirarlo al Museo dell’aeronautica militare centrale di Mosca, dove dal 2017, secondo quanto ha dichiarato al sito Atlas Obscura da Irina Propina, direttrice della Galleria Tretychov della capitale russa, è in programma un’opera di restauro (che però non sappiamo se si sia mai giunta a compimento).

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