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Più sappiamo, meno capiamo

«A mano a mano che la scienza dipana i misteri dell’universo, la realtà che si presenta ai nostri occhi è, per paradosso, ancora più difficile da afferrare. Se ciò che sappiamo aumenta, per così dire, alla velocità della luce, ciò che non capiamo prolifera alla velocità del buio, ossia non è costante ma cresce in modo esponenziale, come l’energia oscura che sta lacerando il cosmo. Oggi, a prescindere dalle opinioni che abbiamo, nutriamo sospetti nei confronti dell’ordine, di qualsiasi tipo di ordine, e anche chi ha fede ha iniziato a sospettare che forse Dio non sia la divinità onnipotente, onnisciente e amorevole che ci veniva promessa da bambini, ma un Dio folle che si accanisce contro il mondo che egli stesso ha creato, ma che non sa né governare né capire. […] Questa immagine tragica di un potere assoluto senza cognizione è proprio ciò che siamo diventati nel ventesimo secolo. E se adesso è questo il nostro Dio, ecco che si spiegherebbe perché il caos e l’irrazionalità sono diventati all’improvviso le costanti del mondo. E si spiegherebbe anche perché ci ritroviamo di nuovo con pericolosi folli al potere: perché incarnano la forza della non-ragione e cavalcano l’onda frenetica del cambiamento come nessuna persone decente e dotata di buon senso farebbe mai.»


Mi fido sempre meno dei miei ricordi, ma sono piuttosto sicuro del fatto che quando mi capitò di visitare il Prado di Madrid, nell’estate del 2014, la sala che mi impressionò di più fu quella in cui erano esposte le opere di Hieronymus Bosch. E che rimasi senza parole davanti all’impossibile Giardino delle delizie, il trittico raffigurante «scene lisergiche della terra, del paradiso e dell’inferno […] un inestimabile tesoro dell’arte medioevale, che come tale sovrasta quasi ogni altra opera non solo nella sala o nel piano in cui è collocato, ma forse nell’intero museo».
Sono d’accordo con Benjamín Labatut, dal cui La pietra della follia — minuscolo gioiello pubblicato nella collana Microgrammi di Adelphi — ho ricavato sia la citazione iniziale sia l’ultimo virgolettato: in tutto l’immenso e straordinario museo del Prado non c’è opera più allucinogena e sconcertante di quella realizzata dal maestro olandese tra il 1480 e il 1490.
Tuttavia ora scopro che accanto al Giardino delle delizie è esposto un altro quadro di Bosch, ben più piccolo (la sua altezza è di soli 48 centimetri), intitolato Estrazione della pietra della follia. Labatut lo riproduce accanto al frontespizio del suo breve saggio, sia perché se ne è evidentemente ispirato per il titolo sia perché lo richiama in maniera dettagliata all’inizio della seconda parte del lavoro, intitolata “La cura della follia”.
Lo osservo con attenzione, ma non accende nulla nella mia memoria. All’inizio me ne rammarico, ma poi mi rassegno: lo stesso Labatut sostiene che probabilmente quell’opera viene ignorata dalla maggior parte dei visitatori, sopraffatti dal trittico che gli sta accanto e perciò incapaci di prestare attenzione a qualsiasi altro oggetto esposto nei paraggi.
Eppure ora so per certo che se mai avrò l’opportunità di tornarci, al Prado, attraverserò a testa bassa e con passo di montagna le sue innumerevoli sale, fino ad arrivare a quella in cui è esposta la raffigurazione della bizzarra operazione chirurgica nella quale un medico con un imbuto capovolto in testa infila il bisturi nel cranio di un paziente vigile e rassegnato, davanti allo sguardo indifferente di una monaca con un libro in equilibrio sul capo e di un frate con la chierica. Arriverò davanti a quel piccolo quadro e passerò il resto della giornata a osservarlo, nel tentativo di comprendere se effettivamente il medico stia tentando di estrarre dalla testa dell’uomo la pietra della follia o se al contrario — come ipotizza Labatut — stia cercando di impiantarvi qualcosa. Magari un bulbo di tulipano, simile a quelli che il gigante olandese trasferitosi nel mio borgo vende ai turisti in cambio di qualche moneta depositata nella cassetta delle lettere.


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