28 ottobre 1922 — O Roma o morte!

Oggi un #fosforo particolare per una ricorrenza speciale.
Ricordiamo i cento anni della marcia su Roma attraverso la cronaca del giorno probabilmente decisivo tra i cinque che scandirono l’evento.
E lo facciamo con le parole di Antonio Scurati tratte dal suo M. Il figlio del secolo, primo di quattro volumi (tre dei quali già pubblicati) che ricostruiscono l’ascesa, l’apogeo e il declino del ventennio fascista.



Santa Marinella, Monterotondo, Tivoli,
28 ottobre 1922, ore 8.30

 

Mentre a Roma si affigge il proclama dello stato di assedio che dovrebbe stroncarla, nelle campagne del Lazio l’insurrezione e già fallita.
La divisione per la difesa della capitale, agli ordini del risoluto generale Pugliese, ammonta complessivamente a 28.000 uomini fra soldati, carabinieri, guardie di finanza e guardie regie, che dispongono di 60 mitragliatrici, 26 cannoni, 15 autoblindate.
A fronte di questo imponente bastione difensivo, nel momento in cui l’azione dovrebbe cominciare, le tre colonne fasciste che hanno raggiunto le zone di concentramento contano forse in tutto 10.000 uomini. Sono uomini assetati, affamati, appiedati, avviliti, male armati, fradici di pioggia. Molti portano alla cintura soltanto pistole, pugnali e arnesi agricoli, nelle mani brandiscono mazze corte, bastoni, staffili. La maggior parte è senz’armi. Quelli che impugnano un fucile militare non hanno cartucce. I capi centuria ordinano ai più giovani di consegnare i pochi fucili ai tiratori scelti, ai reduci della Grande guerra, perché si dispongano in testa e ai fianchi delle colonne. La pioggia, torrenziale, li batte impietosa: scroscia di traverso, investe in pieno i volti, penetra sotto le mantelline, schizza sulle pozzanghere sollevando una spruzzaglia fangosa. L’interruzione delle linee ferroviarie a Orte e a Civitavecchia, disposta dal comando di Roma, obbliga i fascisti a proseguire a piedi. Si disperdono nelle campagne e nei boschi. I giovani rivoluzionari, dopo aver marciato da tutta Italia nella notte per andare all’assalto della Storia, si accampano come primitivi nelle capanne, nelle grotte, cercano riparo dalla pioggia sotto gli olmi. I pagliai umidi o gli bagnati fanno da giaciglio, le calze spugnate sono sostituite da carta di giornale. I ranci sono scarsi – pochi sacchi di patate, gallette di riso. I miserabili derelitti, arrivati nei centri abitati, si gettano sulle fontane ma le trovano asciutte di acqua potabile. Indolenziti, zoppicanti, improvvisati, avanzano. Qualcuno si sfila gli stivali da cavallerizzo e, portandoli dondolanti sulla schiena, prosegue scalzo. Intorno a loro c’è il deserto. Se avvistano una casa in costruzione, i ragazzi di Mussolini s’illudono. Vi si rifugiano a centinaia. L’acqua vi penetra a torrenti. Ciò nonostante, molti dormono, insensibili a tutto. Altri sonnecchiano, abbrutiti. Non la guerra ma la sussistenza degli uomini occupa l’intero orizzonte della loro esistenza: chiedono pane, inventano mattatoi dove le bestie vengono scannate da macellai improvvisati. Sono “scalzacani”, sono decine di migliaia di giovani venuti da tutto il Paese per fare la rivoluzione ma nessuno gli ordina né di ritirarsi né di attaccare. Come nei tre anni di trincea, sono imprigionati in questa nuova terra di nessuno tra Orte e Tivoli e rimangono, dimenticati, alluvionati, catturati, con la loro cattiveria, la loro fame di bottino, con i loro ideali, a marcire sotto la pioggia in questo vicolo cieco della storia.


Milano, via Lovanio, 26 ottobre 1922
Sede de Il Popolo d’Italia, ore 8.00 circa

 

La Galleria è bloccata dalle guardie regie, tre mitragliatrici puntano su piazza della Scala dal palazzo della Banca commerciale, i tram che attraversano via Manzoni sono stati deviati.
Apparentemente estranea agli eventi fino a ieri, tutta Milano questa mattina ha l’impressione che lo stato d’assedio sia già in atto. La battaglia – su questo nessun dubbio – si annuncia impari: gli squadristi hanno allineato cavalli di Frisia davanti alla sede del Fascio di via San Marco ma lungo il naviglio gonfio di pioggia, agli incroci di via Solferino, di via San Marco e di via Brera, i soldati del re stanno sistemando sui cavalletti mitragliatrici pesanti.
Trascorsa la notte a casa, Mussolini è al giornale già da due ore quando Enzo Galbiati, un ex muratore messo poi a capo delle squadre brianzole, ora a comandare la difesa del “fortilizio”, annuncia che da via Moscova avanzano tre autoblindo e da via Solferino un battaglione di guardie regie per occupare la sede del giornale. Vengono, probabilmente, a eseguire l’ordine di arresto per i capi della sedizione.
Il primo a parlamentare è Cesare Rossi. Propone un modus vivendi per evitare il sangue. Gli Arditi e i fascisti che, scesi in strada, ostentando moschetti e bombe a mano davanti a ciò che resta della barricata di bobine di carta disciolte dalla pioggia, si ritireranno all’interno dell’edificio e la forza pubblica si arresterà all’angolo di via Moscova.
Il maggiore della guardia regia, però, non ne vuole sapere. Ha degli ordini e li eseguirà.
Mentre i baffi del maggiore si apprestano a scrivere la parola fine sulla marcia, Benito Mussolini si presenta di persona al bivio degli eventi. Il maggiore non si lascia addomesticare, ribatte anche al Duce parole di minaccia.
Mussolini, che ha continuato a promettere il ministero degli interni al prefetto Lusignoli fino a poco prima, si rivolge al commissario di pubblica sicurezza, suo dipendente, che affianca il maggiore:
“Signori, vi consiglio di riflettere sul carattere del nostro movimento. Non c’è niente che voi non approviate”. Poi bluffa: “In ogni caso sarebbero inutili le vostre resistenze: tutta Italia, fino a Roma, è caduta in mano nostra. S’informino.”
Le parole – ancora le parole – prevalgono sulla realtà, tenendola a bada. Piccole cause, grandi effetti. Il commissario Perna acconsente, il maggiore vacilla. Il sangue è rimandato.

La telefonata di Luigi Federzoni arriva un’ora dopo, mentre Facta è a colloquio con il re per la firma del decreto di stato d’assedio. Federzoni – intimo del re, leader del movimento nazionalista le cui camicie azzurre sono schierate a difesa di Roma eppure simpatizzante dei fascisti pronti ad attaccarla – fa il doppio o il triplo gioco. Mussolini non gli vuole parlare. Indica ad Aldo Finzi di rispondere e a Cesare Rossi di restare in ascolto dalla seconda cuffia. La voce da Roma è gravata dal senso di una catastrofe imminente.
Federzoni – Ho parlato con il generale De Bono a Perugia, il quale si è raccomandato di fare tutto il possibile, visto che lui non può comunicare con Milano, perché Mussolini venga a Roma al più presto, qui la situazione è paralizzata dal fatto che il re non può conferire con nessuno dei capi fascisti. De Vecchi è a Perugia, si dice, ma fino a mezz’ora fa non era ancora arrivato. Qui non c’è nessuno e corriamo il pericolo, dillo subito a Mussolini, che aggravandosi la situazione il re se ne vada.
Finzi – Adesso lo riferirò a Mussolini.
Federzoni – De Bono mi ha pregato di far conoscere a Mussolini questo desiderio suo come comandante generale: che Mussolini venga subito a Roma.
Finzi – Ho capito. Senta una cosa. Però bisogna che gli ordini di Milano per l’autorità militare siano un po’ diversi. Noi non possiamo allontanarci dal Fascio e cominciamo a sparare.
Da Roma adesso si urla.
Federzoni – Non perdiamo la testa! Perché il re non prenda delle determinazioni che aggraverebbero la situazione incalcolabilmente, bisogna che egli possa agire subito in condizioni di visibile libertà, cioè che non esista una pressione… insomma… esteriore… D’altra parte ha dichiarato di non voler essere responsabile di versamento di sangue; in tal caso se ne andrebbe. C’è lo stato d’assedio in tutta Italia, quindi l’autorità militare agisce anche per conto suo.
“Versamento di sangue”… “stato d’assedio”… Benito Mussolini entra nella cabina telefonica.
Finzi – Ecco Mussolini. Te lo passo.
Federzoni – Ti premetto che ho preso io l’iniziativa di questa conversazione. Ho parlato con De Bono il quale mi ha fatto presente i termini della situazione: c’è il conflitto; e se continua questa situazione, accade quella cosa… il re abbandona il trono. Qui manca assolutamente una persona che possa rappresentare il Fascio. De Vecchi non è arrivato a Perugia. De Bono mi prega di farti conoscere tutto questo e di venire immediatamente a Roma.
Mussolini – Io non posso venire a Roma perché l’azione a Milano è in corso. Bisogna sentire lì dove sai, al comando supremo. Io accetterò tutte quelle soluzioni che il comando supremo deciderà di adottare.
Federzoni, esasperato, accentuando la parlata emiliana che lo assimila al suo interlocutore, lo interrompe.
Federzoni – Ma come te le può far conoscere il comando di Perugia, se non può nemmeno comunicare con Milano!?
Mussolini – Pensa tu a informarmi, che devi comunicare con Perugia. Bada che il movimento è serio in tutta Italia.
Federzoni – Ora si tratta di non distruggere il punto di appoggio; altrimenti tutto è finito.
Mussolini – Mettiti in rapporti immediati e di’ che Mussolini si rimette a quello che decideranno i comandanti.
Federzoni – Guarda tu di non muoverti dal Popolo d’Italia.
Mussolini – Non mi muovo. Ma bada che la crisi si orizzonti verso destra, verso destra, verso destra…
Federzoni – In che senso?
Mussolini – Un governo di fascisti.
L’enormità fa esplodere un attimo di silenzio. Poi il doppiogiochista si riprende.
Federzoni – Ma siamo d’accordo, non c’è dubbio. Ma bisogna evitare una situazione d’armistizio. Entro domani sera io personalmente mi impegno di ottenere quello che desideri.
Mussolini riattacca il ricevitore. Esce dalla cabina, Cesare Rossi si accoda. Benito Mussolini ridacchia.
“Te lo dicevo io. Vogliono farmi scendere a Roma. Manovra prevista.”
Su Milano in stato d’assedio continua a piovere. In fondo a via Lovanio, all’angolo con via Moscova, nel punto in cui il plotone di guardie regie sbarra l’accesso, l’acqua ruscella lungo le canne brune delle mitragliatrici.
Tutto il peso della carneficina incipiente è stato scaricato di nuovo sulle spalle dei quattro figuranti che, isolati dal mondo, scrutano l’orizzonte degli eventi da una sala d’albergo a Perugia.


Perugia, 28 ottobre 1922
Hotel Brufani, Comando supremo della marcia su Roma,
stessa ora (le 8.00 circa)

Pozzanghere di vino e champagne riflettono ciò che resta dell’alba. L’acido del vomito si somma all’asprigno della cenere che esala dalle centinaia di mozziconi infilzati in avanzi di pane e salame, fette di torta, annegati in fondi di grappa.
Cesare Maria De Vecchi, appena sceso dalla sua Lancia blu insieme a Dino Grandi, le mani premute sulle reni dopo otto ore di viaggio nel fango, ha il voltastomaco. Quattro squadristi russano sdraiati per terra nella sala del comando, odore di fiati pesanti, di baldoria notturna. De Vecchi li sveglia a calci. Si accenna a una rissa. La carta topografica delle operazioni penzola dal muro appuntata a un unico chiodo. Ecco la rivoluzione fascista.
De Bono è cadaverico, Bianchi scosso dai rantoli. Hanno entrambi notizie vaghissime del mondo esterno. De Vecchi li informa su ciò che accade a Roma, su ciò che ha visto lungo la strada per Perugia: gruppi di fascisti sparuti, tormentati dall’acqua e dal freddo, che marciavano barcollanti e disarmati verso sud, fantasmi di una battaglia che non sarà combattuta.
All’arrivo di Balbo, i quadrumviri, immobili come statue di un compianto sul Cristo morto, si rianimano. I capelli arruffati – impossibile stabilire se sia ancora ubriaco o soltanto esaltato –, Balbo investe De Vecchi con il suo scherno e il suo disprezzo. Lo accusa di essere un politicante, vanta l’occupazione della prefettura di Perugia conquistata in sua assenza.
“Bravo, bravo! E il comando della divisione? Hai occupato anche quello? E il comando della brigata Alpi che vi ha puntato contro i cannoni? E le truppe, le hai disarmate?” La rabbia fa sanguinare le gengive a Cesare Maria De Vecchi.
Poco dopo, verso le 10.00, dall’ufficio del telegrafo arriva la notizia che è stato proclamato lo stato d’assedio e diramato l’ordine di arrestare i capi dell’insurrezione. Bianchi cerca disperatamente di comunicare con Milano e poi con Roma. Fallisce con entrambi. Buio totale.
Un fascista in bicicletta si ferma davanti all’Hotel Brufani. In questura c’è una telefonata da Roma. Vogliono parlare con il quadrumviro De Vecchi. Se non è uno scherzo, chiamano a nome del re.
Non è uno scherzo. Cittadini, l’aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiede che De Vecchi torni immediatamente a Roma. Il sovrano vuole conferire con un alto rappresentante del movimento fascista e Mussolini non si muove da Milano. De Vecchi osa chiedere se ci sono novità. Ce ne sono.
Prima di ripartire sull’auto di uno sbruffone che promette di condurlo a Roma in quattro ore – “Guido alla Mussolini,” si vanta – De Vecchi incontra un vecchio collega, il generale Cornaro, comandante della brigata Alpi, di stanza a Perugia.
Cornaro lo rimprovera per la pazzia di quella messa in scena ma tra colleghi il rimprovero è benevolo. De Vecchi chiede pazienza, indulgenza, transigenza, da soldato a soldato.
Niente di tutto questo, ribatte Cornaro, può essere concesso.
Da quella notte c’è lo stato d’assedio, gli ordini sono precisi. De Vecchi, allora, gli assicura che cambieranno, rivela di esser stato convocato a Roma dal re. Implora di evitare gli scontri. Cornaro risponde con garbo: “Scontri? Non ve ne saranno. La città è isolata, nessuno verrà in vostro soccorso, le mitragliatrici sono puntate.”
Poi il generale prende sottobraccio il fascista, indica i tetti dei palazzi, le colline sovrastanti la piazza e, quasi in un sussurro, aggiunge: “Non mi farà il torto di pensare che non sappia puntare l’artiglieria?”
Cesare Maria De Vecchi riferisce agli altri quadrumviri la sua conversazione con il generale Cornaro. Balbo, come suo solito, impreca, insulta, minaccia, sibilando tra i denti: “Voi calate pure i pantaloni… fate pure la rivoluzione al telefono… io resisterò e se dovrò cadere lo farò soltanto quando avrò sparato l’ultima cartuccia.”
Mentre De Vecchi sale in auto al fianco dello chauffeur improvvisato che “guida alla Mussolini”, la voce di Balbo, avvitata su frequenze isteriche, lo insegue.
“La rivoluzione è cominciata… io sparo… io sparo.”


Milano, via Lovanio, 28 ottobre 1922
Sede de Il Popolo d’Italia

n. 23871 – Avvertesi che disposizioni odierno telegramma n. 23859 circa stato assedio non debbono avere corso.

Il telegramma della presidenza del Consiglio ai ministri degli interni e della guerra viene spedito alle ore 12.05. alle 12.30 il ministero della guerra comunica al comando di divisione l’ordine di sospensione dello stato d’assedio. Poco dopo, l’Agenzia d’informazione Stefani ribatte la notizia: il re, contrariamente a tutte le promesse e a tutti gli impegni, non ha firmato il decreto. Lo stato d’assedio è revocato.
Inutile chiedersi il perché. Le ragioni sono tante e nessuna. La sfinge della storia siede muta, inamovibile, su ciò che è stato, che sarà, che avrebbe potuto essere e che invece resterà per sempre increato.
Benito Mussolini apprende la notizia nel suo ufficio di via Lovanio, mentre riceve la visita di Alfredo Rocco, leader dei nazionalisti e insigne giurista. Rocco è venuto personalmente da Roma per convincerlo ad appoggiare un governo Salandra. Mussolini consegna a Rocco una lista di ministri. L’unico ministero possibile. Il suo. Oramai, dichiara, è tardi per qualsiasi soluzione che non porti a lui.
Alfredo Rocco, agito da un’intuizione fulminea che afferra la realtà con un solo, perdonabile, istante di ritardo, dimentica Salandra e si slancia verso il Duce e lo abbraccia commosso: “Hai perfettamente ragione, tu sì che porterai fortuna all’Italia.”
Il Fondatore del fascismo ha vinto, Mussolini lo sa – tramontata la minaccia dello stato d’assedio, resta solo quella delle squadre fasciste che si ammassano alle porte di Roma – e trascorre il resto della giornata nelle occupazioni abituali del vincitore.
Il nuovo padrone dei destini generali stila elenchi di sottosegretari, promette ministeri, si consulta telefonicamente con il direttore del Corriere della Sera, prepara un’edizione straordinaria del suo giornale in cui annuncia il suo trionfo, dice “no” con una semplice oscillazione dell’indice a tutte le telefonate che giungono da De Vecchi e dagli altri fascisti romani complici dei suoi rivali. Poi rifiuta anche l’invito ufficiale dell’aiutante di campo del re a scendere nella capitale per consultazioni. Scenderà immediatamente, anche su un aereo pilotato personalmente, ma solo per ricevere l’incarico di formare il suo governo.
Alle 17.00 Mussolini rilascia un’intervista a un giornalista de L’Ambrosiano: “Persistono a illudersi che la soluzione possa trovarsi a Roma e non vedono che è a Milano che debbono cercarla. Oramai non vi è più che una soluzione: la soluzione Mussolini.”
Alle 18.00, quando per errore un plotone di guardie regie marcia di nuovo su via Lovanio, certo che non spareranno, il Fondatore dei Fasci di combattimento afferra un moschetto dall’armadio e si getta in strada ad affrontarli di persona. Alle 19.00 riceve, per la seconda volta in due giorni, una delegazione di industriali: De Capitani D’Arzago, Pirelli, Benni, Crespi, Ettore Conti, che oramai hanno imparato la strada. Alle 20.00, allacciata la cravatta sul colletto rigido della camicia buona, va di nuovo a teatro, questa volta, però, non con Margherita Sarfatti, l’amante di lungo corso, ma con Rachele Guidi in Mussolini, la consorte legittima.
Attorno a mezzanotte, finalmente, accetta di ricevere l’ennesima chiamata da Roma di un telefono che squilla a vuoto da ore. De Vecchi, Ciano e Grandi fanno un ultimo tentativo per un governo Salandra. Il nuovo padrone non ha esitazioni: “Non valeva la pena di mobilitare l’esercito fascista, di fare una rivoluzione, di avere dei morti, per assistere alla risurrezione di don Antonio Salandra! Non accetto.”
A Roma come a Milano si sente il colpo secco del ricevitore battere forte sull’apparecchio.


Perugia, 28 ottobre 1922
Hotel Brufani

All’Hotel Brufani la notizia arriva proprio mentre le guardie regie si accingono a rioccupare il palazzo delle Poste: lo stato d’assedio è revocato. Michele Bianchi ed Emilio De Bono, vincendo la reciproca repulsione fisica, si abbracciano come amanti appassionati.
Là fuori in strada, però, ancora non lo sanno. E proprio a pochi metri dall’ingresso dell’hotel, proprio in questo stesso istante, le truppe con alla testa il generale Cornaro sfilano per via Mazzini pronte all’assalto dell’edificio pubblico presidiato dalle camicie nere della “Disperatissima” con due sole mitragliatrici.
Le trombe squillano, le armi vengono puntate, i capi fascisti, pallidi, parlamentano tra due fuochi.
In questo momento Emilio De Bono, gli occhi lacrimosi di vecchio precoce, frappone il suo corpo scheletrico tra gli schieramenti pronti a far fuoco. Lo stato d’assedio – urla De Bono quasi in falsetto – è stato revocato, il re ha convocato Mussolini a Roma, l’incarico è imminente. Il generale Cornaro desiste per la seconda volta.
Poche ore più tardi, De Bono va a far visita al generale Petracchi, comandante la piazza di Perugia. Gli ufficiali e la truppa lo salutano militarmente, poi gli sorridono sotto i baffi. Petracchi, che fino a poche ore prima, sdegnoso, infuriato, marziale, non aveva nemmeno voluto ricevere l’ex collega, e aveva minacciato di far parlare i cannoni, ora, immediatamente convertito alla causa fascista, si giustifica, si scusa, pietisce ai nuovi padroni.
Mentre De Bono, dopo averlo rassicurato, si congeda, il generale Petracchi lancia un ultimo appello:
“La radio, ti raccomando la radio, fammela rimettere in ordine.”
Al Brufani è già un andirivieni di gente; camerati, curiosi, questuanti. Arrivano anche le macchine fotografiche. Bianchi, De Bono e Balbo si lasciano immortalare nel fatidico istante, tutti un po’ curvi in avanti. Avvertono il peso del grottesco, quando il dramma, d’improvviso, piega in una “pièce” a lieto fine.


Tivoli, Monterotondo, Santa Marinella,
28 ottobre 1922

I bivacchi si affollano, i nuovi arrivati contendono il posto ai vecchi derelitti attorno ai fuochi inceneriti dalla pioggia. 3000 uomini della legione senese sono giunti dopo pranzo; 500 anconetani e 300 sabini nel pomeriggio; 2000 della prima legione fiorentina, 2000 della legione Arezzo e della coorte Valdarno e i 3000 della seconda legione fiorentina arrivano in serata.
Arrivano e tutti si accasciano a macerare in un’attesa convulsa. Non c’è acqua potabile, non ci sono viveri, non ci sono soldi. Soprattutto, non ci sono ordini. Si sa solo che è passato Balbo in motocicletta a comandare di non muoversi per non compromettere il gioco politico. Poi più niente, per ore, per giorni. Nessuna azione, nessuna comunicazione, nessuna notizia, nessun foglio d’ordini, se non quello che impone tutti i divieti: non allontanarsi per nessuna ragione dai propri accantonamenti, non procurare danni, non sparare colpi, non rubare pollame ai contadini.
La marcia s’impantana nel fango, i legionari, dimenticati sotto la pioggia, degradati a ladri di polli, vagano per gli accampamenti, sfiniti in ronde assurde, tremanti per le febbri provocate dai temporali e dalla angoscia di vivere inutilmente, privati di ogni risposta.
La colonna accantonata nei pressi di Tivoli è comandata da Giuseppe Bottai, un giovane poeta mancato, figlio di un commerciante di vini, volontario nella Grande guerra come ufficiale degli Arditi, prima futurista poi capo degli squadristi romani. Il suo comando Bottai lo ha piazzato in un alberghetto appollaiato sulle rocce tra i boschi di Tivoli da dove si scorgono le cime dei cipressi di Villa d’Este.
Bottai, insieme a quegli uomini venuti da tutta Italia per marciare sulla capitale dei Cesari, resta lì, per giorni, ad aspettare un segno, immerso nei fragori ipnotici della cascata. Roma è una vaghezza all’orizzonte, un quadro di lontananza, laggiù, verso oriente, sotto un cielo grigio, crepato dai fulmini.


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