Non guerra, cura
Da sempre provo una naturale avversione nei confronti dei cosiddetti “instant book”.
Non mi è mai piaciuta questa perversione dell’editoria contemporanea di buttarsi sugli eventi quando sono ancora in corso, senza frapporre tra il fatto e il suo racconto quella distanza — temporale ed emotiva — che è premessa indispensabile all’analisi.
A volte capita, tuttavia, di imbattersi in un instant book che, per ampiezza di sguardo e grazia di approccio, sembra non esserlo. A me è successo di recente, mentre lavoravo al libro di Daniele Cassandro Siamo davvero in guerra? Metafore e parole del nuovo coronavirus. Un pamphlet che ti fa respirare il cervello, è vero, da poco pubblicato da ediciclo editore | nuovadimensione che in poche battute smonta una delle più volgari e abusate distorsione del linguaggio a cui tutti, quasi tutti, abbiamo fatto ricorso negli ultimi due mesi: il ricorso alla metafora della guerra, che
ci trasforma in qualcosa che prima, quando ci sentivamo in pace, non eravamo: diventiamo dei soldati da una parte, ubbidienti e pronti a tutto, e delle vittime dall’altra, dei caduti “sul campo dell’onore”, un possibile numero in quei bollettini televisivi. Vivere come in guerra ci priva gradualmente della capacità di reazione e ci fa sentire in balìa degli eventi. Affrontare un’emergenza sanitaria pubblica ricorrendo alle metafore della guerra è una semplificazione: aiuta i cittadini a percepire il pericolo e a adeguarsi alle nuove regole ma li disumanizza, li abitua all’idea di essere, come si diceva durante la Grande Guerra, “carne da cannone”.
Spaziando tra arte e letteratura, tra cronaca e storia, Cassandro — giornalista di Internazionale che ha recentemente curato il bellissimo diario per immagini della pandemia pubblicato dalla rivista — ci spiega perché da questa metafora brutta e sbagliata possiamo e dobbiamo uscire, per adottare altre parole d’ordine, ben più utili a programmare quello che ci aspetta nei prossimi mesi. Una su tutte, la parola cura [intesa anche, ma questo lo aggiungo io, come cura di sé, recuperando un precetto morale che, dall’antica Grecia (epimèleia heautoù) fino a Foucault (souci de soi), esorta a riconsiderare sé stessi, il proprio modo di vivere e di stare al mondo].