L’insensibilità come sentimento


Entrai in un’altra stanza vuota, dove Kim Wilde stava per cantare uno dei successi pop di quell’anno, Kids in America, e sedetti a terra guardando il video proiettato in alto sulla parete spoglia. Era così semplice: un sintetizzatore, una macchina del fumo, il viso di Kim Wilde, privo di espressione e su cui si muovevano riflessi blu, che ci fissava, e come molte altre canzoni dell’epoca si trattava di un inno, qualcosa a proposito dell’essere ragazzi in America, dove tutti vivevano per la musica a gogo, ma Kim la cantava con calma determinazione, come una ragazza capace di affrontare qualsiasi cosa con la sua fredda indifferenza: non si eccitava per quella canzone eccitata. Era questo a dare al brano una tensione supplementare: Kim continuava a non sorridere anche nel roboante ritornello — era chiusa in se stessa, l’occhio spento, perfino sedata. Può darsi che sapesse dove si trovava, oppure no, forse si sarebbe potuta trovare in qualsiasi posto — ecco che cosa c’era di tanto suggestivo in quel video. Lei ti porgeva un invito, ma non gliene fregava niente se lo accettavi o no, perché poteva sempre trovare qualcun altro. Irradiava quell’estetica «insensibilità come sentimento» che mi attirava tanto e che stavo cercando di perfezionare in Meno di zero, e mi esaltava vederla incarnata nel più pop degli artefatti. E in una certa misura mi ricordava anche Susan Reynolds — sebbene Susan fosse assai più bella di Kim Wilde; fosse una strafica in confronto — perché anche Susan, sempre più, aveva un comportamento distaccato che non era esattamente indifferenza; era proprio l’insensibilità come provocazione, qualcosa di seducente, qualcosa che Susan aveva sviluppato per anni e che ora stava fiorendo. Entrambe ce l’avevano negli occhi, nel modo in cui atteggiavano la bocca, nel complesso della loro inespressività — ed era una cosa eccitante.


[Bret Easton Ellis, Le schegge, trad. di Giuseppe Culicchia, Einaudi 2023, pp. 219-220]

Kim Wilde, Kids In America (1981)

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