Il primo grande romanzo del 2020 si intitola Gli schifosi


Lo ha scritto Santiago Lorenzo, lo ha tradotto Bruno Arpaia e in Italia lo ha pubblicato Blackie edizioni.

Nel passaggio che riporto di seguito — uno dei miei preferiti — Manuel, il protagonista del romanzo, risplende in tutta la sua misantropia.

Dopo aver ferito con un cacciavite un poliziotto da cui è stato aggredito senza alcuna ragione, il ragazzo si nasconde nel desolato borgo di Zarzahuriel, dove tira a campare grazie all’aiuto dello zio, la voce narrante del libro.
Fino a che a rovinare tutto non sopraggiungono, come sempre, gli schifosi.

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«Si suppone che la solitudine sia il grande male che affligge l’uomo contemporaneo. A lui sembrava sempre poca. Mordicchiava quella che aveva e ne chiedeva sempre di più, per conservarla, per risparmiarla, per dilapidarla in continuazione, come chi vuole più cioccolatini, più sigarette, più vacanze. Come chi desidera più amici e più amore, così il signor Manuel era avido di più nessuni e di meno qualcuni.
Mi raccontava che c’era una specie arborea non predominante, ma di un certo sviluppo a Zarzahuriel. Le sue foglie erano come linguette (si trattava di un rovere, probabilmente). Durante l’inverno trascorso, quelle che non erano cadute al suolo erano rimaste agganciate, secche e ocra, ai rami. Un po’ di vento le faceva agitare, e il suono che producevano era proprio uguale a quello dei passi umani. Quanti spaventi si era preso credendo che ci fosse qualcuno lì vicino. Non perché si poteva trattare della guardia forestale, che si lanciava su di lui al grido “Quello dell’androne di calle Montera!”. Ma perché poteva essere un tizio, una tizia, un rompiscatole che arrivava a insudiciare quel momento, con il suo portavivande per il picnic e le sue storielle del cazzo. Per la paura che spuntasse un bipede con le scarpe che gli avrebbe rotto i coglioni con le sue pene e i suoi pallettoni di saliva.
Quando si voltava sentendo i presunti passi, non c’era mai nessuno, solamente foglie in leggero dimenìo, solamente l’albero che creava suspense e poi rideva per lo scherzo. Manuel era ancora solo, indenne.
Nella sua condizione di libertà assoluta avrebbe potuto darsi all’alcol, all’eroina o alla pornografia infantile, senza alcuna possibilità fisica di riprovazione sociale. Se non lo fece, fu per non guardare in faccia, rispettivamente, il cameriere, lo spacciatore o i bambini.
Passava la vita senza la necessità di rapporti umani, e senza altro vettore di relazione con i suoi simili se non i ricordi che ne conservava. E così, a raffiche, si ricordava dei suoi genitori, dei suoi conoscenti alla lontana, dei tizi con cui aveva avuto a che fare nei suoi lavori a termine, di quei simpaticoni del burattiname commerciale, delle forze vive, sempre più a loro agio nei propri atteggiamenti filoautoritari; delle maggior parte delle persone in generale, fra le quali aveva mendicato una telefonata per uscire a bere una birra.
La cosa normale sarebbe stata mettersi a vituperare gli ingombranti fantasmi della vita passata, a molestarli dal di fuori, come un ubriacone che va allo zoo a rompere i coglioni ai leoni sapendo che i catenacci sono ben chiusi. Ma nemmeno a questo si sentiva spinto, inondato da un salubre disinteresse. Come se l’ubriaco avesse ritrovato il senno e avesse preferito andarsene allo stagno delle oche e dei cigni invece di mettersi a lanciare sassolini, improperi e sputi ai feroci felini dalle grandi fauci. Manuel era oltre tutto questo.
Voleva non avere a che fare con nessuno, refrattario alle stupidaggini che proponevano alla sua considerazione, impermeabile alle linee di perorazione che gli offrivano perché ne traesse illazioni, ermetico a ogni lustrata di orecchie con pacchetti di frasi da ascoltare, confrontare, adottare o comprare. Io ero perplesso. Ma era così che lui vedeva le cose.
Voleva vivere isolato, senza altre parole né regole che le sue. Tutti i debiti sono con le persone. Niente persone, niente debiti. Soltanto quelli che uno ha con sé stesso. E quel debitore non sfuggirà.»

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