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Il demone a Beslan

Ho aspettato undici anni per leggere Il demone a Beslan di Andrea Tarabbia.
Ora che l’ho fatto, ho capito perché (e ne sono contento).
Qui un articolo dell’autore sulla genesi del romanzo e sulla nuova edizione (a dieci anni dalla prima uscita).



Io sono il peggiore e il più cattivo degli uomini che ci sono qui dentro. Io sono l’uomo con la forca.


Nur-pashi Kulaev, unico superstite tra i 32 componenti del commando ceceno che tra il primo e il 3 settembre 2004 occupò la Scuola n. 1 di Beslan, cittadina dell’Ossezia del Nord.

Capitava che, passando, la si sentisse cantare. La cieca aveva i capelli lunghi e neri, lucidi dello sporco del mondo, un naso lungo e fine, il corpo magro e la voce sottile. Come molte delle nostre donne, che qualcuno poi chiamò le «vedove nere», era sempre vestita di scuro. A guardarla, pareva che i suoi occhi morti, di un azzurro acquoso, brillassero. I versi di Timor Mocuraev risuonavano nel cortile battuto dai nostri passi. Io mi fermavo ad ascoltarla, ma senza avvicinarmi troppo, perché se la cieca avvertiva la presenza di qualcuno, subito si zittiva, e senza dire niente rimaneva ferma, in attesa che l’osservatore se ne andasse. «Quando ti avvicini sento l’odore della ruggine della tua forca» mi ha detto una volta, e non ha più cantato.



«Non è ancora finita, Marat. Tu non sei l’unico prigioniero della strage di Beslan. Ci sono migliaia di persone. Le hai viste tutte quelle bottiglie di plastica? La gente continua a portarle, le porta ogni volta che trova il coraggio di entrare nella scuola. Per loro non è facile andarci, ma sanno che lo devono fare per rimanere vicini ai loro morti, e allora hanno trovato questo sistema, senza dirsi niente, senza organizzarsi: semplicemente c’è stato qualcuno che l’ha fatto per primo, e gli altri lo hanno seguito: portano acqua ai loro morti, e sai perché? Perché non li avete fatti bere, Marat, non li avete fatti bere… La sete, Marat: per i parenti può essere più insopportabile della morte. Portare in quel luogo dell’acqua è il loro modo di ricordarli e di tenerli in vita, ed è anche l’unica via che hanno per trovare il coraggio di varcare la soglia: “Devo portare l’acqua a Jana, o a Nikifor, o alla mamma”, dicono.»


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