Il book club di David Bowie
Fedele al motto (che ho appena coniato) “quando le buone notizie scarseggiato, quelle poche vanno divulgate”, segnalo l’uscita di un libro che regala diverse gioie: Il book club di David Bowie, scritto da John O’Connell, tradotto da Fabrizio Coppola, illustrato da Luis Paadín e pubblicato da Blackie edizioni (che pure sta regalando grandi sorrisi).
Si tratta di un volume che, come recita il sottotitolo, raccoglie «i 100 libri che hanno cambiato la vita a una leggenda». Non i 100 libri preferiti da David Bowie — avido lettore che, non amando spostarsi in aereo, attraversava gli Stati Uniti in treno portandosi dietro una biblioteca mobile capace di contenere 1500 titoli ordinatamente disposti su piccole mensole all’interno di speciali bauli —, bensì i 100 che considerava i più importanti e influenti per la sua formazione, selezionati tra i tanti letti nel corso della vita e raggruppati in una lista redatta di proprio pugno.
Ogni scheda-libro di O’Connell è accompagnata da un brano di Bowie da ascoltare durante la lettura, e la raccolta di quelle canzoni ha dato vita a questa playlist che è un’ideale colonna sonora per chi deciderà di aderire al book club.
Ho fatto un rapido conto: dei libri elencati da Bowie ne ho letti una miseria, appena 10. Molti altri li ho incrociati/sfogliati per motivi di studio-lavoro, di altrettanti ho letto qualcos’altro dello stesso autore. Però la triste realtà è quella detta: posso dire di conoscere bene un misero 10 per cento delle letture più amate dal Duca Bianco.
Per consolarmi mi dico che non conta la quantità, ma la qualità. Dieci libri saranno pure pochi, ma al loro interno ci sono autentici capolavori, tra cui uno di cui mi ero colpevolmente dimenticato: Una banda di idioti, di John Kennedy Toole.
No, mi correggo.
Non mi ero certo dimenticato delle peripezie di Ignatius Reilly — intellettuale, ideologo, fannullone, parassita, ghiottone — in cui mi imbattei tanti anni fa (il mio diario di letture dice che era addirittura il 1998) e di cui mi innamorai a prima vista.
Ciò che avevo dimenticato è la storia di come Una banda di idioti arrivò alla pubblicazione, per certi versi ancora più stupefacente del romanzo in sé (capita spesso: quando un libro ci piace molto bisognerebbe avere la pazienza di ricostruirne la storia editoriale, e il più delle volte scopriremmo cose assai interessanti).
Ed è proprio a essa che fa cenno Joseph O’Connell, per spiegare quanto questo libro potesse essere nelle corde di Bowie:
Senza che nessuno lo sapesse, John Kennedy Toole scrisse Una banda di idioti all’inizio degli anni sessanta, durante il servizio di leva, a Portorico. Lo inviò a Robert Gottlieb, apprezzato editor di Simon & Schuster, il quale inizialmente lo incoraggiò ma alla fine rifiutò il manoscritto con la seguente motivazione: «In realtà non parla proprio di nulla». Depresso, Toole intraprese la carriera accademica, insegnando inglese in un college di New Orleans, ma iniziò a comportarsi in un modo sempre più eccentrico e paranoico. Un giorno partì per un road trip in California che sarebbe durato tre mesi. Poi, nei pressi di Biloxi, nel Mississippi, si suicidò collegando il tubo di scappamento della sua auto all’abitacolo per mezzo di una canna. Era il 26 marzo del 1969.
Tra i beni del figlio scomparso, la madre, Thelma, trovò il manoscritto di Una banda di idioti e la corrispondenza con l’editor di Simon & Schuster. Furiosa per quel rifiuto, dedicò il resto della propria vita a cercare di dimostrare che suo figlio era un genio. E contro ogni previsione, ci riuscì. Il romanzo fu pubblicato da un piccolo editore universitario e nel 1981 si aggiudicò il premio Pulitzer.
Ora, io questa storia proprio non la ricordavo, e quando questo passaggio di O’Connell me l’ha fatta tornare in mente, mi sono maledetto per non averla custodita nella memoria con la cura che avrebbe meritato.
Così ho ripreso in mano in libro di Toole per scoprire che la prefazione di Walker Percy, scrittore e editor che ebbe un ruolo importantissimo nella pubblicazione del romanzo, inizia esattamente con l’incontro tra Percy e la mamma di Toole. Quindi, come forma di autodafé per non essermi ricordato una storia tanto bella, ho deciso di ricopiare la prefazione qui per intero (tanto è breve):
Tutto sommato la maniera migliore di presentare questo romanzo (che alla terza lettura riesce a stupirmi ancor più della prima) è raccontare come ne sono venuto a conoscenza. Nel 1976, quando insegnavo a Loyola, una signora che non conoscevo cominciò a tempestarmi di telefonate. Mi proponeva una cosa assurda: non che avesse scritto un paio di capitoli di un romanzo e volesse entrare a frequentare il mio corso; tutt’altro: si trattava di suo figlio che era morto lasciando un intero romanzo, piuttosto voluminoso, scritto agli inizi degli anni Sessanta: la signora voleva che lo leggessi. Quando le domandai perché avrei dovuto leggerlo, mi rispose: «Perché è un grande romanzo».
Col passare degli anni sono diventato abile a evitare le cose che non desidero fare, e se c’era una cosa che proprio non mi andava di fare era dover trattare con la madre di un romanziere morto e, peggio ancora, dover leggere un manoscritto che la signora aveva definito grande e che si rivelò un ammasso di fogli unti e quasi illeggibili.
Ma la signora non si dette per vinta e un bel giorno me la ritrovai in ufficio che mi consegnava il voluminoso manoscritto. Non avevo più scuse per tirarmi indietro; mi rimaneva soltanto una speranza: che le prime pagine fossero talmente brutte da farmi sospendere la lettura con la coscienza tranquilla. Di solito ci riesco e alle volte mi è sufficiente leggere il primo paragrafo. L’unica paura è che non fosse proprio brutto, o proprio bello, nel quale caso avrei dovuto continuare a leggere.
Questo romanzo lo lessi fino in fondo. All’inizio con l’acuta sensazione che non fosse abbastanza brutto da consentirmi di smettere, poi con una punta di interesse e via via sempre con maggiore emozione, che sfociò alla fine in incredulità: non era possibile che fosse così valido. La tentazione di svelare i punti in cui sono rimasto a bocca aperta per lo stupore, in cui ho sorriso o riso apertamente o scosso la testa pieno di meraviglia, è fortissima: ma in fondo, è meglio che il lettore se li scopra pian piano per conto suo.
Ho cambiato idea, non riporterò la prefazione di Percy per intero perché mi piace che si fermi qui, in questo punto. Mi ha fatto venire voglia di rileggere il libro di Toole, e di riscoprire pian piano la magia di un romanzo che fa tanto ridere quanto piangere, grazie alle peripezie di uno dei personaggi più straordinari che sia mai stato immaginato e creato da uno scrittore.