Federico, Fabio e Rita


«Pian pianino sono entrato nel vivo di questa vicenda, io… ci ho messo un po’ di tempo, troppo, ad arrivare a ipotizzare, a pensare che fossero stati i poliziotti a ridurre Federico in quelle condizioni. Pensavo fossero stati gli amici, qualcun altro, ma gli ultimi della lista erano proprio i poliziotti, anzi, non c’erano proprio in quella lista. Ero talmente sprovveduto, vergine, su questa materia che non… non era nelle mie corde. E forse non volevo neanche che lo fosse, ecco. Nel senso che mi disorientava, nella mia scarsa cultura sociale mi disorientava questa cosa. Io avevo bisogno di avere dei punti fermi. Già avevo messo in discussione la sanità, se poi ci aggiungevo anche le forze dell’ordine cosa mi rimaneva? E poi soprattutto avevo paura, avevo paura proprio. Già avevamo subito un ribaltone professionale, ero rimasto assente dallo studio per tantissimo tempo perché vivevo in terapia intensiva, avevo due bambini piccoli, in studio non ci venivo mai e per parecchio tempo. E mi dicevo, e ora che ho ripreso vado in rotta di collisione con tutti i miei interlocutori istituzionali? Be’, insomma… e lì è stata decisiva la mia socia, Rita, perché a un certo punto, quando mi resi conto che erano stati proprio i poliziotti a ridurre Federico in quelle condizioni, ricordo questa conversazione con lei nella stanza qui dietro a quella in cui ci troviamo. Le dico, già ne abbiamo passate di tutti i colori, ma qui il problema è che è successo proprio questo. Che facciamo? Andiamo avanti? Oppure ci fermiamo, visto che stiamo ricostruendo le macerie di uno studio che ha già avuto molte difficoltà? E lei, Rita, mi rispose: “Ma Fabio, se non facciamo questo caso cosa facciamo a fare gli avvocati?”».



L’altro giorno, mentre preparavo gli scatoloni in vista di un imminente trasloco, ascoltavo Rumore, il podcast prodotto e realizzato da Francesca Zanni che in sei puntate ricostruisce il caso di Federico Aldrovandi.
Intorno alle cinque del mattino del 25 settembre 2005 Federico, studente ferrarese di diciotto anni, viene pestato a morte da quattro poliziotti — gli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri — durante un banale controllo. A stabilirlo è una sentenza passata in giudicato il 21 giugno 2012, dopo il verdetto della Cassazione che ha messo fine a una vicenda giudiziaria durata quindici anni.



A rappresentare la famiglia Aldrovandi in quell’estenuante ricerca di verità e giustizia è stato l’avvocato Fabio Anselmo, nome che i genitori di Federico sentono pronunciare per la prima volta il pomeriggio di quello stesso 25 settembre dalla bocca di un loro amico ispettore della Digos, che a sua volta era stato suo cliente.
Il volto di Anselmo oggi è noto all’opinione pubblica per aver rappresentato la famiglia di Stefano Cucchi nel corso di un altro buco nero, per certi versi simile a quello in cui è caduta la famiglia Aldrovandi. Ma in quel lontano settembre del 2005 Anselmo è solo un «avvocato di provincia», come si definirà in un’intervista al settimanale Left, che sta faticosamente ricostruendo le macerie della sua carriera dopo una tragica vicenda personale che ha cambiato per sempre la sua vita, provata e professionale. Nel maggio del 1998 la sua ex moglie, mentre sta per dare alla luce il loro secondo figlio, contrae un’infezione in sala parto ed entra in un lungo coma.
È a questa vicenda che Anselmo fa riferimento nel corso della terza puntata di Rumore, che ascolto mentre sono inginocchiato sul pavimento con lo scotch da pacchi teso tra le mani, intento a rinforzare uno scatolone pieno di cose che nemmeno ricordavo di aver accumulato. E così rimango, fermo, mentre ascolto la voce dolorosa dell’avvocato pronunciare parole a cui avrei ripensato tutto il giorno, e poi anche a quello successivo, finché oggi ho deciso di riportarle qui, così magari non ci penso più.

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