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Che cosa si fa in una rivoluzione?

Una delle tante meravigliose pagine di La storia da dentro, l’ultimo libro di Martin Amis (traduzione di Gaspare Bona).



Allora. Che cosa si fa in una rivoluzione? A grandi linee, tre cose. Si vede cosa sparisce, si vede cosa arriva, si vede cosa resta.
Nella rivoluzione sessuale, a sparire fu la castità prematrimoniale; ad arrivare fu un crescente divario tra conoscenza carnale ed emozione; a restare fu la possibilità dell’amore. La rivoluzione sessuale non fece particolari richieste agli scrittori; si limitò a garantire loro una nuova larghezza di vedute. Improvvisamente poterono occuparsi di argomenti che prima erano proibiti, per legge; e quasi tutti ci provarono (senza successo).
Ma immagina un attimo di essere un poeta o un romanziere in una vera rivoluzione, una rivoluzione molto violenta, come quella russa (incomparabilmente più violenta di quella francese). Per il romanziere o il poeta, a sparire fu la libertà di espressione; ad arrivare fu una spasmodica sorveglianza di ogni singola riga; a restare fu la consuetudine creativa di usare carta e penna. Quindi in che modo avrebbe dovuto adattarsi e regolarsi uno scrittore?
Beh, puoi fare come il romanziere e drammaturgo Aleksej Tolstoj (lontano parente dell’autore di Anna Karenina e anche, d’acquisto, dell’autore di Padri e figli). Aleksej era cinico e venale, e confessava di provare gusto nelle acrobazie per adattare il suo lavoro alla linea generale, ovvero all’ortodossia bolscevica del momento (un meccanismo proteiforme). Quest’uomo disse anche che una delle cose che odiava di più della vita era andare per vetrine senza denari adeguati…
In alternativa potresti prendere a esempio Isaak Babel´, scrittore di racconti fortemente espressivi, che a un certo punto dichiarò di essere «il maestro di un nuovo genere letterario, il genere del silenzio». Nobile intenzione. Ma se anche puoi smettere di scrivere, è difficile che tu riesca a smettere di parlare; Babel´ parlò troppo, e fu fucilato in una prigione moscovita nel 1940.
«Dei settecento scrittori che si erano riuniti al I Congresso degli scrittori nel 1934, soltanto cinquanta erano sopravvissuti abbastanza a lungo da partecipare al secondo nel 1954».


La scelta, allora, era fra collaborazione attiva e mutismo. C’era anche una terza via, che richiedeva quella che potremmo chiamare un’illusione di autonomia. Gli scrittori che la imboccavano si autoconvincevano di procedere con i loro scritti (quietamente ma in maniera pubblicabile) senza gravi compromessi interiori.
Tolstoj poté prosperare perché aveva la pelle dura dell’indifferenza artistica, insieme con tutti i RAPPISTI (i membri dell’associazione russa degli scrittori proletari); privilegiati e decorati, vivevano bene; e soprattutto, restavano vivi. A essere eliminati, in un modo o nell’altro, erano gli idealisti. L’elemento letale era l’autenticità letteraria; se te la portavi dentro eri condannato.
Diamo un’occhiata al destino di due poeti. Il talentuoso Vladimir Majakovskij scrisse compiacenti e rudi inni alle baionette e alle statistiche sulla ghisa; e si piantò una pallottola nel cervello nel 1930, all’età di trentasei anni. Il talentuoso Sergej Esenin scrisse compiacenti e sommessi inni ai braccianti agricoli e ai mietitori; e si impiccò nel 1925, all’età di trent’anni. Questi due uomini tradirono il loro dono e la loro vocazione, finendo con il trovarsi in contrasto con le sorgenti del loro essere.

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