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Bar Beach

Riporto (quasi per intero) il capitolo “Bar Beach” tratto da Black Tulips, l’ultimo (e postumo) romanzo di Vitaliano Trevisan, semplicemente perché Vitaliano Trevisan era il più bravo di tutti.



Bar Beach

Un lungo giro in macchina nella notte, nel corso del quale, per un tratto, lambiamo l’area dell’immenso porto industriale. Tangenziali a quattro corsie, illuminazione scarsa, poco traffico, ma, ai bordi della strada, neanche fossimo a casa, si sgrana una fila di ragazze molto poco vestite. Con mia grande sorpresa, alcune sono oyibo.
Be’?, dice Ade, cosa credevo, che in Nigeria non ci fossero ragazze bianche? Noi andiamo in Europa, loro vengono qui, e, a sentir lei, esattamente come accade da noi, arrivavano quasi tutte dai paesi dell’est. La maggior parte lavora nei club, continua Ade. Quelle che sono per strada, significa che sono messe male, sicuramente drogate o malate. Ma sono bianche, aggiunge sarcastica, e ci sono neri che, pur di andare con una bianca, tirano su anche un cesso. People!, dey’r stoopid, o.
Lasciamo la tangenziale e imbocchiamo una strada lunga e diritta che costeggia l’oceano. Parcheggiamo a bordo strada, attraversiamo, e siamo subito in spiaggia, una lingua di sabbia profonda qualche centinaio di metri, lunga una decina di chilometri, disseminata di baracchini che vendono birra e bibite varie, e offrono, oltre a tavoli e sedie, ognuno la sua compilation sparata a tutto volume. E ogni locale, ovviamente, è dotato di generatore diesel. Se uno ci si concentra, il frastuono è insopportabile; per non parlare dei fumi di scarico, a cui si sommano quelli prodotti dai fuochi degli immancabili suyia-boys. Come sto imparando, in Nigeria, a certi particolari non bisogna far caso.
Ancora una volta mi chiedo cosa cazzo ci sono venuto a fare in Nigeria, pensiero a lungo respinto, direi da prima ancora di partire, ammesso che sia possibile pentirsi di essere in un posto prima di esserci, e sì, è possibile, sapendo che, avendo promesso ad Ade che sarei andato, malgrado tutti i miei dubbi e le mie paranoie, in Nigeria, prima o poi, mi ci sarei ritrovato. E infatti ci sono, e mi chiedo che cazzo ci sono venuto a fare, perché per quanto mi sforzi, o forse proprio per questo, il pensiero continua a riemergere, e ogni volta che viene a galla spingerlo giù è sempre più difficile, tanto che, a distanza di poco, di nuovo devo ricordarmi di respirare, e mi accorgo che sto tremando, e tremare eccetera.
Brutto segno che accada di nuovo a distanza di così poco tempo. Paura di crollare. Fossi a casa, preparerei la mia borsa, con giusto lo stretto necessario, prenderei il bus e mi presenterei in Psichiatria 2, dove mi conoscono bene — l’ultima volta che ci sono andato, non ho avuto nemmeno bisogno di parlare, alla dottoressa è bastato uno sguardo. Ma, se accadesse qui? Sottile è il filo che mi tiene. Quando si tende troppo, basta un niente.
Ade si accorge. Anche lei mi conosce. U think too much!, dice scuotendo la testa — un altro dei suoi refrain. Mi prende la mano e camminiamo per un po’ così, in silenzio, seguendo Mudia e Amen, che ci precedono, verso il lungomare. Fuori dalle luci dei bar, l’oscurità è quasi totale, e, a giudicare dalla frequenza con cui ci imbattiamo in coppie fornicanti, non pochi ne approfittano. Gruppetti di persone sedute sulla sabbia tiepida a bere e a fumare; molti che, come noi, passeggiano, altri che ballano. Nessuno sembra far caso al fantasma bianco. E il vento! Di che ringraziare dio anche solo per quel vento.
Sottile è anche la linea che separa disperazione e felicità. O forse, proprio quando si è disperati si riesce davvero ad approfittare di quei momenti in cui la vita, nonostante tutto, ci offre l’occasione di essere felici. Che non durerà lo sappiamo bene, e questo è, e al tempo stesso non è, il punto. Ade ha ragione: penso troppo. Restiamo ai fatti. E, anche se le fotografie non sono certo fatti, è a loro che ci teniamo.
Dispongo le foto sul tavolo. Sembro felice, in quegli scatti. Sorrido; addirittura rido di gusto, come si dice, mentre, seduto a un tavolo di plastica gialla, con Mudia e Amen, alzo con loro la mia bottiglia di birra per brindare a dio sa cosa; e rido anche mentre Ade mi sta trascinando per un braccio perché, malgrado la mia riluttanza, vuole assolutamente che balli. Ballando non rido. Ho gli occhi chiusi, la mano destra sul cuore, la sinistra a mezz’aria, le gambe larghe, le ginocchia leggermente piegate. Sembro molto serio, concentrato, e insieme fluido, leggero. E infine una foto che mi ritrae solo, sul bagnasciuga, di nuovo con gli occhi chiusi, le braccia aperte, la camicia bianca svolazzante, mentre mi godo quel vento prezioso.

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