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Bad Boys

Ho provato a tenere il conto dei passaggi dell’ultimo libro di Martin Amis, La storia da dentro (traduzione di Gaspare Bona, Einaudi 2023), in cui ho rischiato di perdere il controllo delle emozioni, però a un certo punto ho rinunciato.
Tuttavia so di averlo perso, il controllo, in due momenti che non a caso hanno per protagonista, oltre all’autore, il suo fraterno amico (nonché mio eroe letterario): Christopher Hitchens.
Entrambe queste pagine sono segnate dal ritratto di un volto, perciò mi è venuta voglia di farne un’unica orazione laica.


Nel primo momento, Amis veglia l’amico nelle ultime ore della sua vita e lo descrive con la grazia irreale della sua scrittura:

Christopher era sdraiato sulla schiena, con il capo inclinato, il volto girato e gli occhi chiusi. Andai dritto da lui e lo baciai sulla guancia sussurrandogli all’orecchio: — Hitch, sono Mart, e sono qui con te —. Le ciglia, le palpebre non ebbero neppure un fremito… Quando dopo un minuto mi voltai, vidi che in camera c’erano altre sette persone. Le riconobbi a una a una: Blue, suo padre Edwin, suo cugino Keith, sua figlia Antonia, gli altri due figli di Christopher, Alexander e Sophia, e Steve Wasserman, vecchissimo amico di Blue. Non un Gabriel, non un’infermiera: quel genere di assistenza era giunto al termine. Anche le mosche adoratrici della morte erano andate a ronzare altrove; fatto il loro lavoro, si erano spostate altrove, su un altro letto, in un’altra camera.
E lo stesso aveva fatto Christopher, perché questa non era la familiare stanza all’ottavo piano. Le sue cose erano lí, per metà ammucchiate o riposte invaligia, ma non era piú la postazione di una persona attiva, non c’erano né libri, né giornali, né la tastiera sul vassoio di metallo, né un lavoro in corso. Una stazione intermedia, una sala d’aspetto.
Capii presto che cosa eravamo venuti a fare. Cosí passai a salutare tutti silenziosamente, poi presi una sedia, incrociai le braccia e mi unii alla veglia del moribondo.

Com’era giovane e bello. Cosí giovane e bello da dare serenità. Aveva l’aspetto di un pensatore, un pensatore impegnato, che riposa un attimo, con il collo inclinato per alleviare la tensione di lunghe e faticose meditazioni… ora la ragione dormiva, ecco il sonno della ragione; somigliava a Keats a Roma sulle bianche lenzuola; gli avresti dato venticinque anni.


«[Keats] sprofondò gradualmente nella morte, — scrisse il ritrattista Joseph Severn, — così tranquillo che pensai stesse ancora dormendo.»

*

Il secondo momento accade poche pagine dopo.
La veglia è conclusa, Hitchens è morto, ma i due amici non smettono di chiacchierare:


— Dopo che sei morto, Hitch, è successo qualcosa di molto sorprendente… Nulla di soprannaturale, naturalmente, perché il soprannaturale non esiste. Però aveva un che di soprannaturale.
— Soprannaturale quanto?
— Moderatamente soprannaturale. Solo un pizzico soprannaturale.
— E mi stai dicendo che a farlo accadere sono stato io dall’oltretomba? O dall’oltreinceneritore, perché come sai la mia tomba è il cielo.
— Vero, la fossa comune di tanti tuoi fratelli e tue sorelle di sangue. No, non sto dicendo quello. È tutta opera tua, ma di quando eri vivo.
— Spiegati.
— Ti spiegherò, e cercherò di farti capire.


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