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7 novembre 2021 — Due attivisti

Ieri, ma venticinque anni, fa moriva un attivista che ha fatto la storia del Novecento; domani, ma trentacinque anni fa, ne nasceva un altro che avrebbe fatto quella degli anni Zero del nuovo secolo.
Il primo si chiamava Mario Savio, il secondo Aaron Swartz.
Ho scelto di evocarli oggi, in questo 7 novembre che alza un ponte tra le due date, perché c’è qualcosa di forte, mi sembra, che accomuna queste due vite, qualcosa riassumibile nella generica formula della lotta per il libero sapere.
E ho scelto di farlo partendo, come spesso accade nei post di Fosforo, da due sfocati ricordi personali.




Mi trovo al Salone del libro di Torino, è il 2011 (forse) e sto vagando tra i corridoi gremiti del padiglione 2 del Lingotto quando, mentre passo davanti allo stand del Saggiatore, vedo Enrico Deaglio accomodato su una sedia senza nessuno intorno. Decido, per una volta, di violare una sacra regola che mi sono dato — non rompere mai le palle al prossimo —, lo avvicino, gli dico che sono un suo fedele lettore dai tempi del Diario settimanale e che ho appena finito di leggere il primo volume di Patria (1978-2008), rimanendo folgorato dal suo Ricordo di quei tempi dedicato alla «breve vita di Mario Savio, il ragazzo italiano che cambiò l’America».
Deaglio mi guarda un po’ confuso ma non seccato (almeno mi pare), pronuncia qualche parola di ringraziamento e sta per aggiungere qualcosa, forse proprio in merito a Savio, quando sopraggiunge un giovane uomo trafelato (probabilmente uno di quegli addetti stampa delle case editrici che durante le fiere sembrano morsi da una tarantola) che lo interrompe per ricordargli un qualche impegno, trascinandolo via.
Sono ancora convinto che Deaglio stesse per confidarmi la sua intenzione di scrivere, prima o poi, quella biografia di Mario Savio che ancora manca dagli scaffali delle nostre librerie (che io sappia, non è stata tradotta nemmeno quella scritta da Robert Cohen nel 2009). E mi piace pensarlo perché le righe che Patria riserva a uno dei leader più carismatici del Free Speech Movement, scoccate anch’esse da un ricordo personale e riprodotte parzialmente di seguito, sono sufficienti a capire che sarebbe stata bella quanto la vita raccontata.


*


LA BREVE VITA DI MARIO SAVIO, IL RAGAZZO ITALIANO CHE CAMBIÒ L’AMERICA
da Enrico Deaglio, Patria 1978-2008, pp. 482-484


Nel 1996 brevi notizie annunciavano la morte di Mario Savio, per fatti di cuore, a soli 53 anni: un nome italiano per lo studente che iniziò con quattro anni di anticipo il ’68 in America.
Mi sono ricordato che alla fine degli anni sessanta mi trovavo fra i tanti studenti che avevano occupato la facoltà di Medicina di Torino. Avevamo bloccato tutto: le lezioni, i laboratori, la ricerca e la cosa andava avanti così ormai da settimane. Una sera bussarono alla porta due giovani ricercatori venuti con una borsa di studio dalla
California. Avevano tutti due un impermeabile bianco e sostenevano che la nostra occupazione li danneggiava gravemente perché non potevano completare la ricerca a cui erano stati assegnati. Li stavamo coinvolgendo in problemi con cui non c’entravano niente. Però, nella discussione, uno dei due, per dimostrare simpatia, tranquillamente se ne uscì: «Guarda che io ero con Mario Savio a Berkeley…››.
Lasciò cadere il nome così, con naturalezza, sapendo che voleva dire qualcosa.
Infatti la storia di Mario Savio è «una storia», dall’inizio alla fine.


L’inizio è il 2 dicembre 1964. Berkeley, California, campus dell’università. Da mesi gli studenti sono in agitazione e chiedono al rettore di esercitare il diritto di parola; il loro prende il nome di Free Speech Movement. Il rettore, un uomo molto reazionario di nome Clark Kerr, risponde in maniera brusca: chiama la polizia a restaurare l’ordine e dichiara che l’università è una «fabbrica il cui compito è riempire delle teste vuote, plasmarle e farle lavorare per il sistema». Ed ecco che nel centro del campus, uno sconosciuto studente si toglie le scarpe («per non essere accusato di danneggiamento››) e sale sul tetto di una macchina della polizia con un megafono. «Il rettore ci ha detto che questa è una fabbrica, di cui lui è il capo. E allora, se lui è il capo, questo vuol dire che tutte le facoltà sono sue sottoposte, e che noi siamo solo la materia bruta, che non può avere parola sul prodotto finale. Che cosa saremo? Clienti dell’università, del governo, dell’industria, del sindacato organizzato. Ma noi siamo esseri umani».
Poi seguono le poche frasi diventate famose: «Se tutto è una macchina, c’è un tempo in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa sentire così male al cuore, che non possiamo più partecipare, non possiamo neanche partecipare passivamente, dobbiamo mettere i nostri corpi in mezzo alle ruote e agli ingranaggi, sulle leve, su tutto l’apparato, dobbiamo farlo finire. E dobbiamo dire chiaramente al popolo, a chi sta guidando tutta la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che, a meno che non siamo liberi, impediremo a tutta questa macchina di funzionare».
Dopo un fortissimo applauso, migliaia di ragazzi si mettono in corteo cantando «We shall overcome…››. Tutti ricorderanno l’impatto delle parole di Mario Savio, la sua semplicità e la sua moralità. La polizia quel giorno arresta 792 studenti, ma non potrà impedire che il Free Speech Movement da quel giorno dilaghi in tutte le università americane e diventi la spina dorsale del movimento di opposizione alla guerra in Vietnam. Mario Savio quel giorno ha 22 anni. Figlio di immigrati siciliani, cresciuto nel Queens, a New York, dove il padre lavora in fonderia, si è conquistato una borsa di studio per l’università di Berkeley perché è un piccolo genio della fisica, Da studente liceale ha scoperto errori nelle tabelle della Us Navy sulle propagazioni del suono in acque profonde e il suo lavoro è stato pubblicato. A Berkeley segue un personale corso di studi che comprende filosofia, fisica, astronomia e letteratura. Nell’estate del 1963 insieme ad altri studenti di Berkeley si reca nel Mississippi dove, dirà dopo, «ho visto con i miei occhi che cos’è il razzismo e che cos’è la tirannia».
Dopo il famoso discorso, Mario Savio non diventa un leader. Non lo vuole, non ci tiene e peraltro l’Fbi non smetterà di vessarlo. Passa diversi mesi in galera, si guadagna da vivere come commesso
di libreria, barista, dà ripetizioni private di matematica. Si laurea in fisica solo nel 1984, per poi insegnare Natura del tempo e Letteratura e fisica alla Sonoma State University.
Mario Savio non ha mai avuto, dopo quel famoso discorso, alcun ruolo politico. […]


*



Non avevo mai sentito parlare di Aaron Swartz fino a un pomeriggio d’estate del 2015 quando, in attesa che iniziasse il concerto di Bob Corn presso lo Swartz Studio di Sacile, mi avvicinai alla targa che spiegava i motivi per cui la mia amica Sara e i suoi soci avevano scelto di intitolare la loro bottega proprio al giovane attivista morto suicida l’11 febbraio 2013.
Tante volte mi è capitato (e mi capita) di provare imbarazzo per la mia ignoranza, e quella fu di certo una delle più mortificanti. Com’era possibile che quel nome, così potente anche solo a pronunciarlo, non evocasse nulla nel mio immaginario? Eppure, ma lo avrei capito solo nei mesi a venire, apparteneva a un giovane intellettuale della rete che, almeno così recitava la breve biografia che scorrevo a mente, aveva inventato cose mirabolanti, entrate nella quotidianità di tutti noi uomini immersi nell’ecosistema digitale, anche nella mia, fornendo un contributo impareggiabile nel campo del libero sapere.
A volte succede, no? Per tanto tempo ignoriamo l’esistenza di una vita e poi, da quando ne veniamo a conoscenza, quella vita si intreccia alla nostra senza che quasi ce ne accorgiamo. Negli anni successivi a quel pomeriggio, il nome di Aaron Swartz — seguito dal suo lucente pensiero, dalla sua disperata parabola — è apparso in così tante occasioni nei libri che ho letto per piacere e/o per lavoro, e senza che lo cercassi di proposito, da farmi credere che a volte certi incontri, spesso i più eccitanti, hanno bisogno del loro tempo per diventare in realtà. E che tuttavia, quando accade, ciò che si riceve in cambio compensa molto velocemente gli anni di attesa.

Di seguito, ripropongo il Guerrilla Open Access Manifesto di Aaron Swartz, pubblicato originariamente sul blog Aubreymcfato e reso in italiano da un collettivo di traduttori composto da Silvia Franchini, Marco Solieri, elle di ci, Andrea Raimondi, Luca Corsato, e altri.


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GUERRILLA OPEN ACCESS MANIFESTO


L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private. Vuoi leggere le riviste che ospitano i più famosi risultati scientifici? Dovrai pagare enormi somme a editori come Reed Elsevier.
C’è chi lotta per cambiare tutto questo. Il movimento Open Access ha combattuto valorosamente perché gli scienziati non cedano i loro diritti d’autore e che invece il loro lavoro sia pubblicato su Internet, a condizioni che consentano l’accesso a tutti. Ma anche nella migliore delle ipotesi, il loro lavoro varrà solo per le cose pubblicate in futuro. Tutto ciò che è stato pubblicato fino a oggi sarà perduto.
Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso e inaccettabile.
«Sono d’accordo,» dicono in molti, «ma cosa possiamo fare? Le società detengono i diritti d’autore, guadagnano enormi somme di denaro facendo pagare l’accesso, ed è tutto perfettamente legale — non c’è niente che possiamo fare per fermarli». Ma qualcosa che possiamo fare c’è, qualcosa che è già stato fatto: possiamo contrattaccare.
Tutti voi, che avete accesso a queste risorse, studenti, bibliotecari o scienziati, avete ricevuto un privilegio: potete nutrirvi al banchetto della conoscenza mentre il resto del mondo rimane chiuso fuori. Ma non dovete — anzi, moralmente, non potete — conservare questo privilegio solo per voi, avete il dovere di condividerlo con il mondo. Avete il dovere di scambiare le password con i colleghi e scaricare gli articoli per gli amici.
Tutti voi che siete stati chiusi fuori non starete a guardare, nel frattempo. Vi intrufolerete attraverso i buchi, scavalcherete le recinzioni, e libererete le informazioni che gli editori hanno chiuso e le condividerete con i vostri amici.
Ma tutte queste azioni sono condotte nella clandestinità oscura e nascosta. Sono chiamate “furto” o “pirateria”, come se condividere conoscenza fosse l’equivalente morale di saccheggiare una nave e assassinarne l’equipaggio, ma condividere non è immorale — è un imperativo morale. Solo chi fosse accecato dall’avidità rifiuterebbe di concedere una copia ad un amico.
E le grandi multinazionali, ovviamente, sono accecate dall’avidità. Le stesse leggi a cui sono sottoposte richiedono che siano accecate dall’avidità — se così non fosse i loro azionisti si rivolterebbero. E i politici, corrotti dalle grandi aziende, le supportano approvando leggi che danno loro il potere esclusivo di decidere chi può fare copie.
Non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste. È tempo di uscire allo scoperto e, nella grande tradizione della disobbedienza civile, dichiarare la nostra opposizione a questo furto privato della cultura pubblica.
Dobbiamo acquisire le informazioni, ovunque siano archiviate, farne copie e condividerle con il mondo. Dobbiamo prendere ciò che è fuori dal diritto d’autore e caricarlo su Internet Archive. Dobbiamo acquistare banche dati segrete e metterle sul web. Dobbiamo scaricare riviste scientifiche e caricarle sulle reti di condivisione. Dobbiamo lottare per la Guerrilla Open Access.
Se in tutto il mondo saremo in numero sufficiente, non solo manderemo un forte messaggio contro la privatizzazione della conoscenza, ma la renderemo un ricordo del passato.
Vuoi essere dei nostri?

Luglio 2008, Eremo, Italia



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