7 febbraio 1980 — William Waccher

Quarant’anni fa, in via Magliocco, a Milano, l’organizzazione eversiva Prima Linea uccideva William Waccher, ventiseienne geometra di Battipaglia, provincia di Salerno.



Sette mesi prima, il 7 luglio 1979, William si era costituito alle forze dell’ordine in seguito all’arresto del cugino Claudio, per poi essere scarcerato alla scadenza dei termini di carcerazione preventiva.
Il 24 novembre 1979 , ancora in cella nel carcere di Torino, William scrivere una lettera alla moglie Maria Grazia (pubblicata, come altre, dal quotidiano Lotta Continua il 9 febbraio 1982, con il titolo “Lettere dal carcere di William Waccher”):

Ci sono dei momenti in cui penso all’assurdità di tutta questa storia. E mi trovo a impazzire rendendomi conto di quanto nulla io abbia a che fare con la lotta armata.

In verità, come si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore di Torino emessa il 5 novembre 1980, William qualcosa con PL c’entra: non ha alcun ruolo operativo, fa semplicemente parte di quella rete d’appoggio di cui l’organizzazione si serve per i propri fini, composta da centinaia di militanti che gravitano intorno ai pezzi grossi, ma non partecipano attivamente alle azioni da questi ideate e portate a termine.
Durante gli interrogatori a cui viene sottoposto, William conferma il coinvolgimento nell’organizzazione del cugino Claudio e fa altri due nomi di un certo rilievo, quelli di Marco Fagiano e Russo Palombi, figure queste sì di primo piano. Inoltre William rivela che proprio Fagiano gli ha fissato un appuntamento con un altro esponente molto importante dell’organizzazione, un certo Alberto, il quale “gli parlò lungamente di Prima Linea, proponendogli di entrare nel settore di PL che si occupa dell’archivio e insistendo in questa proposta nel corso di un secondo e terzo appuntamento”.
Alberto, si saprà in seguito, è il nome di battaglia di Marco Donat Cattin, figlio del potente ministro democristiano Carlo e da qualche anno ai vertici dell’organizzazione terroristica. Ma all’epoca la sua identità è sconosciuta ai magistrati e alle forze dell’ordine.



Il breve periodo di detenzione di William induce i suoi compagni di militanza a credere che il giovane abbia collaborato con gli inquirenti in maniera molto più rilevante di quel che ha fatto, pertanto ne viene decisa l’eliminazione in quanto delatore e infame.
Sono questi i mesi in cui l’intera area del terrorismo rosso comincia a fare i conti con il fenomeno del pentitismo, che ne causerà la sconfitta. Dodici giorni dopo l’omicidio Waccher sarebbe stato arrestato il brigatista rosso Patrizio Peci, che con le sue successive rivelazioni avrebbe prodotto danni devastanti per l’organizzazione.
Da qui il clima di autentica paranoia che serpeggia anche al vertice di PL.
Nel documento di rivendicazione dell’attentato si legge:

L’eliminazione di un delatore è una scelta di spaccare con un rapporto opportunista, di imporre ad ogni compagno la chiarezza sul livello di scontro che oggi si affronta, di imporre una rottura dell’esistenza privata separata, […] di imporre l’apertura di un processo collettivo di organizzazione.

Sta di fatto che, secondo quanto riportato dall’ordinanza di rinvio a giudizio già citata,

nonostante le comprensibili insistenze sul punto da parte degli inquirenti, e tutti i tentativi posti in essere a livello di accertamenti di polizia giudiziaria, sulla base di tali dichiarazioni del William nessun risultato concreto era stato raggiunto circa la vera identità e la individuazione dell’Alberto e/o di altri militanti della banda armata ovvero la scoperta di covi o basi della stessa.

Maria Grazia, la moglie di William, ha ricordato così il giorno in cui suo marito è stato ucciso:

La mattina del 7 febbraio non sono uscita con Willy perché non mi sentivo bene. […] A un certo punto ho sentito dei grandi botti. Mi sono vestita in fretta per andare a vedere. Sono corsa fuori e all’angolo di via Pezzetti c’era un capannello di persone. Lì ho cominciato a intuire qualcosa. Mi sono fatta largo a spintoni, i curiosi non mi volevano far passare. Mi hanno detto che una donna del commando si era fermata per dargli il colpo di grazia nella nuca.

Il giorno successivo all’attentato, Lotta Continua pubblica una lettera firmata da un lettore che si firma Fiorello intitolata “Miseria dell’uccidere chi si conosce, tragedia di morire per mano di chi si conosce”.

L’omicidio Waccher produrrà all’interno di Prima Linea un fortissimo travaglio, di natura sia politica che morale. I militanti si interrogheranno sull’opportunità del gesto, sul suo valore simbolico e strategico, e sul livello raggiunto dal conflitto armato, nel corso di un processo di autoanalisi che si protrarrà per anni, anche dopo l’arresto di tutti i militanti e la fine del gruppo.

Susanna Ronconi, esponente di primissimo piano del gruppo, dirà anni dopo:

L’omicidio Waccher, più che un’operazione militare, è stato un vero dramma, per come è stato poi vissuto. Questo è un salto mostruoso rispetto alla nostra pratica precedente, anche se precedentemente era stata una pratica omicidiaria; però, se da un punto di vista morale è vero che non ci sono morti pesanti e morti leggere, ma la morte evidentemente è una, dal punto di vista dell’esperienza personale questo è vero fino a un certo punto. Almeno nella mia esperienza ci sono fatti — e l’omicidio Waccher è forse il primo di questi — che mi hanno segnata più profondamente di altri, ed è anche per questo, forse, che ho difficoltà a parlarne.


 

Prima Linea è stato il secondo gruppo eversivo, dopo le Brigate rosse, per numero di omicidi compiuti (20) e di militanti incriminati (923). Fino all’inizio degli anni Duemila la storiografia dedicata agli anni di piombo aveva curiosamente trascurato di occuparsi della sua storia, mentre negli ultimi quindici anni una serie di testi hanno contributo a colmare almeno in parte questo vuoto. Tra tutti merita sicuramente una menzione Prima Linea. L’altra lotta armata, opera di Andrea Tanturli in due volumi (il primo, 1974-1981, uscito l’anno scorso) pubblicata da DeriveApprodi.

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