5 giugno 1975 — Non sono cose troppo grosse, sai

Quarantacinque anni fa, nei pressi della cascina Spiotta d’Arzello a Melazzo di Acqui Terme, Margherita “Mara” Cagol, co-fondatrice e dirigente delle Brigate rosse, moriva in seguito a un conflitto a fuoco con una pattuglia di carabinieri.


Margherita Cagol (1945-1975)

Per quanto mai del tutto chiarite, le circostanze in cui perse la vita la giovane donna  sono state raccontate in lungo e in largo in sedi molto più appropriate di questa, e di recente anche in un romanzo.
Quel mattino del 5 giugno 1975, Mara — che solo due mesi e mezzo prima aveva fatto irruzione armi in pugno nel carcere di Casale Monferrato per liberare il marito, riuscendoci senza nemmeno sparare un colpo — insieme a un altro militante delle Brigate rosse mai identificato ha da poco preso in consegna Vittorio Vallarino Gancia, noto industriale del settore vinicolo sequestrato da un commando brigatista il giorno precedente e destinato a trascorrere la sua prigionia all’interno della cascina, comprata tre anni prima dalla stessa Cagol per sei milioni di lire.
Quando una Fiat 124 blu con targa dei carabinieri parcheggia nei pressi dello stabile per un controllo, Gancia è stato consegnato ai suoi carcerieri da pochi minuti, ed è per questo che l’arrivo degli uomini dell’Arma coglie i brigatisti del tutto impreparati. Com’è possibile che la prigione sia stata individuata in così poco tempo?
Tutto si spiega perché poco prima Massimo Maraschi, il brigatista  incaricato di consegnare l’ostaggio ai suoi carcerieri, subito dopo averlo fatto è stato fermato a un posto di blocco, si è dichiarato immediatamente un “prigioniero politico” e così facendo ha convinto ancor di più gli inquirenti che Gancia debba trovarsi ancora in zona, da quel momento perlustrata palmo a palmo.
Il tenente Umberto Rocca, il maresciallo Rosario Cataffi e gli appuntati Giovanni D’Alfonso e Pietro Barberis arrivano quindi alla cascina Spiotta con l’intento di effettuare un controllo di routine, senza immaginare cosa li stia attendendo. «Non avevamo sospetti particolari quando giungemmo alla Spiotta. Bussammo, ma nessuno rispose» racconterà il tenente Rocca davanti alla Corte d’assise.


Sopralluogo dei carabinieri presso la cascina Spiotta (foto tratta da Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo, A. Curcio editore, 1988)

Quando il brigatista-mai-identificato, dal primo piano dell’abitazione, si accorge della presenza di un carabiniere all’ingresso, avverte subito Mara che, pur incredula, cerca di mantenersi lucida e opta per l’unica strada che in quel momento pare percorribile: dimenticarsi di Gancia e tentare di raggiungere le due macchine parcheggiate sotto il portico per tagliare la corda, coprendosi la fuga con un paio di granate SRMC e le armi in dotazione.
Mentre dall’esterno i carabinieri intimano di uscire a chiunque si trovi dentro la cascina, il brigatista-mai-identificato lancia la prima granata all’indirizzo del tenente Rocca, che crolla a terra ferito (perderà un occhio e un braccio) ma ha la forza di rialzarsi in tempo per vedere i due brigatisti lanciarsi fuori dalla cascina sparando all’impazzata e dirigersi verso le due macchine.
A fare le spese del nuovo tiro al bersaglio è l’appuntato Giovanni D’Alfonso, quarantacinque anni, colpito dal volume di fuoco e deceduto dopo il ricovero all’ospedale di Alessandria. Quando è ancora in vita, l’appuntato è soccorso dal collega Cataffi, a sua volta leggermente ferito, mentre Barberis, tornato in macchina per chiamare rinforzi, e Rocca assistono al rocambolesco tentativo di fuga in auto dei brigatisti: la 127 rossa guidata dal brigatista-mai-identificato finisce contro un salice e viene tamponata dalla 128 blu guidata da Mara. A quel punto i due carabinieri mettono sotto tiro i fuggiaschi, che escono dall’auto prima sparando e poi proclamando la loro resa.
Secondo la testimonianza rilasciata in aula da Barberis, in questo momento Mara Cagol è già stata raggiunta da due proiettili, a un braccio e alla schiena. Sia lei sia il brigatista-mai-identificato gettano a terra le armi, ma Barberis sente che qualcosa ancora non va, non si fida, tiene sotto tiro soprattutto l’uomo: «Lo fisso negli occhi, vedo che non è tranquillo. Ordino di spostarsi, e quello, appena arrivato dietro alla donna, tira fuori una bomba dalla tasca della camicia. La riconosco subito: ne ho lanciate a centinaia. Mi getto in avanti, per evitarla, e faccio fuoco tre volte, il primo proiettile colpisce la giovane».
Per capire quello che succede nei minuti che seguono, una delle cose che si possono fare è cambiare il punto di vista del racconto, abbandonando la prospettiva dei carabinieri per assumere quella del brigatista-mai-identificato, autore di una testimonianza scritta rivenuta il 18 gennaio 1976 all’interno di un covo brigatista e pubblicata da Vincenzo Tessandori nel libro Br. Imputazione banda armata (1977):

Il CC urlava. Per primo gli dissi di non sparare, che ci arrendevamo. Sotto tiro, ci ordinò di alzare le braccia sul capo. Feci presente alla “M” [Mara] che mi restavano in tasta due SRMC e che appena il CC si fosse distratto lo avrei centrato, dissi che dopo ci sganciavamo subito e che se andava male correvamo nel bosco sottostante. Mi rispose affermativamente dicendomi che dovevamo pensare a scappare. Presi dalla tasca una SRMC e tolsi la sicura. Mentre il CC, chiamando gli altri, si avvicinava a quello disteso voltandoci le spalle, decisi di tirarla. Mentre la tiravo vidi che si voltava, si accorse del pericolo e non so se si buttò a terra, si sentì un botto e il CC tutto pallido ancora in piedi. Era andata male. Urlai a “M” di svignare e correre verso il bosco. Mentre correvo zigzagando nel campo sentii tre colpi intorno a me. Riuscii ad arrivare al bosco e con un tuffo mi buttai nella macchia piena di spine. Non riuscendo a districarmi temetti il peggio. Da sopra sentivo “M” che imprecava verso il CC. Presi l’altra SRMC dalla tasca e pensai di centrare il CC. Mi affacciai dalla buca e vidi “M” con le braccia alzate che imprecava verso il CC. Nel vedere la “M” ancora seduta e nell’impossibilità di arrivare a tiro decisi di sganciarmi velocemente, pensando che i rinforzi sarebbero arrivati a minuti. Corsi giù per il pendio e quando stavo per arrivare dall’altra parte della collina vicino a un bosco sotto a un castello (saranno passati cinque minuti dalla mia fuga) ho sentito uno, forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra. Per un attimo ho pensato che fosse stata la “M” a usare il suo mitra, poi ebbi un brutto presentimento confermato dal modo in cui sparavano nei campi durante le ricerche.


Il corpo d Margherita Cagol dopo lo scontro a fuoco nei pressi della cascina Spiotta

In una lettere del 28 novembre 1969, Margherita Cagol, laureatasi da poco alla facoltà di Sociologia di Trento con una tesi sulla “Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico”, spiegava alla mamma farmacista le motivazioni alla base della scelta di intraprendere un percorso politico sempre più radicale:

Esistono moltissime condizioni oggi per trasformare questa società e sarebbe criminale (verso l’umanità) non sfruttarle. Tutto quello che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo, perché questo io credo sia il senso profondo  della nostra vita. Non sono cose troppo grosse, sai mamma. Sono piuttosto cose serie e difficili, che tuttavia vale la pena di fare. […] La vita è una cosa troppo importante per spenderla male o buttarla via in inutili chiacchiere o battibecchi. Ogni minuto è importante.

Ogni volta che rileggo queste righe mi colpiscono due cose: il tono ironico, anche se probabilmente involontario, con cui una giovane donna dice alla mamma di voler «combattere questo sistema», ma rassicurandola che in fondo «non non sono cose troppo grosse, sai»; e poi quell­’insofferenza verso un certo di tipo di chiacchiericcio isterico e inconcludente che mi riporta alla memoria un brano tratto dal diario di un’altra rivoluzionaria di quegli anni, Ulrike Meinhof, trovata impiccata alle sbarre della finestra della sua cella nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, Stoccarda, il 9 maggio 1976.
L’incredibile parabola di Ulrike Meinhof — che da giornalista di successo divenne una delle esponenti di punta della Rote Armee Fraktion — è stata raccontata dal giornalista tedesco Alois Prinz in un bel libro uscito in Italia qualche anno fa con un titolo — Disoccupate le strade dai sogni — preso in prestito da un album di Claudio Lolli altrettanto prezioso. E tra le pagine 109 e 110 di quel libro, Prinz riporta un passo del diario di Ulrike Meinhof che mi sembra gettare un ponte tra il suo destino e quello di Mara Cagol:

Apparizioni televisive, contatti, godere di una certa stima sono elementi che contraddistinguono il mio mestiere di giornalista e socialista, e mi procurano ascolto alla radio e alla televisione al di fuori di “konkret”. È addirittura piacevole, umanamente, ma non esaurisce il mio bisogno di calore, di solidarietà, di appartenenza a un gruppo. Il ruolo che mi ha reso celebre corrisponde solo parzialmente al mio carattere e alle mie esigenze, perché rende il mio spirito come quello di un buffone costringendomi a dire sorridendo delle cose che per me, per noi tutti, sono questioni di vita o di morte: le devo dire sorridendo, quindi nascondendomi dietro una maschera.

Ulrike Meinhof (1934-1976)

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