3 luglio 1995 — Alexander Langer, o dell’arte di scavalcare i muri

È sempre complicato spiegare da dove vengo. «Ma allora sei italiano o tedesco?»
Nessuna delle bandiere che svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza.
In compenso riesco, con il tedesco e l’italiano, a parlare e a capire nell’arco che va dalla Danimarca alla Sicilia.

 

Un quarto di secolo fa se ne andava Alexander Langer, pensatore libero, eretico, qualche decennio in avanti rispetto ai suoi (e ai nostri) contemporanei in merito a un lunghissimo elenco di temi.



In questi ultimi giorni ho cercato di ricordare il nome, il volto o anche solo la voce di chi me ne parlò per la prima volta, ma senza riuscirci. Ricordo molto bene, però, quando successe: il 25 aprile 1994, che in quell’anno cadeva di lunedì.
Da lì a paio di mesi avrei sostenuto l’esame di maturità e per rompere un po’ la routine dello studio avevo accettato lo strano invito di C., una mia compagna di classe, a partecipare a un mini-ritiro organizzato da un gruppo di obiettori di coscienza che lei frequentava in maniera assidua. Anch’io avevo intenzione di non fare il servizio militare, quindi entrare in contatto con quell’ambiente avrebbe potuto essermi utile, eppure l’idea non mi faceva impazzire. Sapevo che si trattava di un gruppo molto legato alla Chiesa — da cui io, al contrario, ho sempre cercato di tenermi lontano — e temevo perciò di sentirmi un pesce fuor d’acqua. Però C. mi aveva rassicurato — «è tutta gente in gamba, aperta, sono sicura che ti piacerà» —, di lei mi fidavo, perciò accettai, e feci bene.
Passai tre giorni molto belli in una casetta in legno tra le montagne della Val Tramontina, a stretto contatto con un cattolicesimo ruvido, a tratti dissidente, senz’altro critico, tra le poesie-preghiere di Adriana Zarri — cosa ci stai a fare nel mondo, se non hai occhi, se non hai mani per toccare la vita? — e gli scritti di don Milani. L’ultimo giorno del ritiro, appunto il giorno della Liberazione, uno dei ragazzi con cui avevo legato di più ma di cui oggi ricordo solo un paio di occhiali, mi chiese se conoscessi un certo Alexander Langer.
«No», risposi, «mai sentito».
«È uno dei verdi», precisò lui. «Un giornalista, un pacifista… Se ti capita, leggi qualcosa di suo. Ti piacerà».
Non mi sarebbe capitato di lì a breve, mica c’era internet nel 1994. Però mi ricordai quel nome poco più di un anno più tardi, quando sulla Repubblica lessi che Alexander Lager si era tolto la vita impiccandosi a un albero di albicocche nelle colline di Firenze. E ricordo anche che quella notizia mi rattristò molto, perché seppur di lui non sapessi granché, il profilo che accompagnava la notizia della sua morte me lo aveva subito reso simpatico.

Se è certa la causa della morte di Alex Langer, 49 anni, presidente da sei anni del gruppo verde al Parlamento Europeo, restano i dubbi, il mistero di quest’uomo amatissimo in tutta Europa che ha voluto andare via proprio quando il suo impegno era sempre più urgente. Alla sede dei verdi di Firenze Marco Boato e Franco Corleone, amici e colleghi politici, cercano di rispondere e spiegare. Prima a sé stessi. Poi agli altri. «Potremmo dire che è una vittima di Sarajevo, di quella guerra che aveva previsto prima che cominciasse e che lui, pacifista, era disposto anche a combattere con le armi». […]
«I pesi mi sono diventati insostenibili» è scritto in tedesco in uno dei tre biglietti (la calligrafia è stata riconosciuta dai familiari) trovati nella macchina lasciata a cinquanta metri dalla pianta di albicocco che ha scelto per suicidarsi nella collina di Pian dei Giullari. «Vi prego di perdonarmi tutti anche per questa mia dipartita; un grazie a coloro che mi hanno aiutato a tirare avanti. Non rimane da parte mia alcuna amarezza verso quelli che hanno aggravato i miei problemi…»


Alexander Langer era nato a Sterzing (Vipiteno) il 22 febbraio 1946, da una famiglia borghese (il papà era un medico viennese di origine ebrea, la mamma una farmacista tirolese). Aveva frequentato le scuole medie e il liceo classico (in lingua tedesca) a Bolzano, ma vivendo in un quartiere a prevalenza italiana, e quindi sviluppando da subito una fortissima sensibilità nei confronti della questione etnica altoatesina, per la quale si spese fin da giovanissimo e per tutta la vita.
Dal 1964 al 1968 si era trasferito a Firenze per frequentare Giurisprudenza e studiare con Giorgio La Pira. «Sono gli anni del dialogo tra cattolici e marxisti» avrebbe ricordato in seguito. «Vengo a conoscere la variegata sinistra italiana. Scopro, in particolare, la sua componente popolare. […] Vedo i comunisti da vicino, seguo le vicende del dissenso cattolico, vado ai dibattiti, faccio amicizie». E suoi amici sarebbero stati Ernesto Balducci e Enriques Agnoletti, Giorgio Spini e Paolo Barile, e quel don Milani per la cui scuola di Barbiana avrebbe tradotto in tedesco Lettera a una professoressa.
Dopo il servizio militare, svolto come artigliere di montagna tra il giugno del 1972 e il settembre del 1973, Langer si era avvicinato a Lotta continua, divenendo anche direttore responsabile dell’omonimo quotidiano. Si era trasferito a Roma, dove aveva insegnato per un paio d’anni in un liceo scientifico, e nel 1978 — proprio quando l’allora presidente del consiglio Giovanni Spadolini aveva pensato di risolvere la questione altoatesina rendendo obbligatoria una dichiarazione di appartenenza etnica da riportare all’anagrafe, che Langer, ovviamente, rifiutò di assecondare, venendo per questo escluso dall’insegnamento — aveva fatto ritorno in Sudtirolo, dove aveva dato inizio alla sua carriera politica “istituzionale”: prima nei banchi del consiglio regionale del Trentino Alto-Adige (dove sarebbe stato rieletto nel 1983 e nel 1988) e poi in quelli del parlamento europeo, tra le fila dei verdi (1989 e 1994), dove avrebbe proseguito la sua instancabile, ma sempre più difficile, opera di costruttore di ponti, soprattutto là dove mine e mortai li stavano facendo saltare in aria.
In questi anni di impegno civile e politico, Langer scrisse molto — articoli, saggi, relazioni — e una buona rappresentanza di questa produzione è stata raccolta un anno dopo la sua morte dall’editore Sellerio, in un’antologia intitolata Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, nella collana Fine secolo diretta da Adriano Sofri. Memore del consiglio che mi era stato dato durante il ritiro-obiettori, comprai quel libro appena uscì e solo dopo averlo letto mi arrivò tutta la grandezza di un uomo dotato di una capacità di analisi a tratti spietata nella sua lucidità, incapace di accomodarsi nei luoghi comuni, molto, forse troppo, in anticipo rispetto ai suoi tempi.



Si prenda, a mo’ di esempio, il suo pacifismo dai tratti scandalosi, blasfemi, perché disintossicati da ogni più piccola goccia di retorica ideologica, laica o religiosa:

Molte volte la pace è stata scambiata per il quieto vivere ed il discorso che i cristiani hanno portato avanti si è ridotto nei secoli ad una pace prevalentemente interiore, una pace menefreghista che vede la sua tranquillità nell’assenza di relazioni. […] una pace assai debole, evasiva, di coloro che in chiesa sono disposti a pregare per gli altri, anche con fervore, ma che nella vita pratica si comportano come l’opinione pubblica o il mondo vuole (“I possibili malintesi di un discorso sulla pace”, forse del giugno 1967).

Si prenda, a mo’ di ulteriore esempio, il suo attivismo ecologista altrettanto rigoroso, così radicale già trent’anni prima che le virtù verdi — da lui identificate nella consapevolezza del limite, nell’equilibrio, nell’obiezione di coscienza, nel privilegiare il valore d’uso a quello di scambio, la sussistenza al profitto… — ri-entrassero di prepotenza nell’agenda politica del dibattito globale:

Non si può più far finta di non sapere, l’allarme è ormai suonato da almeno un quarto di secolo e ha generato solo provvedimenti frammentari e settoriali. Da qualche decennio e con sempre maggiori dettagli si conoscono praticamente tutti gli aspetti di questo impoverimento da cosiddetto benessere. Quasi non si sta più a sentire quando si recita, più o meno completa, la litania delle catastrofi ambientali. Un quarto di secolo è stato impiegato a scoprire, analizzare, diagnosticare e pronosticare, a dare l’allarme, a lanciare appelli e proclami, a varare leggi e convenzioni, a creare istituzioni incaricate a rimediare. [] visto però che le cause dell’emergenza ecologica non risalgono a una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e distruzione, bensì ricevono un massiccio e plebiscitario consenso di popolo, la svolta pare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in assai larga misura (“La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”, 1994).

E si prendano, infine, il suo impegno politico sofferto, sempre in bilico tra quell’anelito alla partecipazione e quella diffidenza nei confronti della politica dei partiti che ogni vero attivista ha sperimentato almeno una volta nella sua vita; e il suo lavorio costante, infaticabile, speso nella risoluzione dei nuovi, ma così vecchi, conflitti scoppiati in Europa nell’ultimo decennio del ventesimo secolo: la crisi albanese, la guerra cecena, e poi la tragedia dei Balcani, la prova forse più lacerante, il peso più grave. Talmente grave da indurre il più convinto dei pacifisti a invocare un intervento armato sovranazionale come ultimo, estremo tentativo di porre fine a una mattanza causata anche dall’immobilismo politico del vecchio continente:

[…] occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche impiegare – accanto agli strumenti assai più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica, dell’incoraggiamento civile, dell’integrazione economica dell’informazione veritiera… – la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli Stati. Se qualcuno spadroneggia con la forza delle armi nel suo quartiere o nella sua valle, e nessuno si muove per fermarlo, in poco tempo scoppia una generale guerra per bande, in cui tutti sono obbligati ad armarsi ed a cercare di farsi valere con la forza. I più forti sono i serbi – ma non è una colpa, altri sarebbero altrettanto feroci se ne avessero la forza!
Un intervento militare di questo tipo, immaginabile solo con un mandato e una direzione Onu alle spalle, proprio per garantire la necessaria imparzialità e caratterizzazione di “operazione di polizia internazionale”, potrebbe anche essere affidato a forze Nato, magari insieme ad altre forze. Forse sarebbe sufficiente la seria minaccia di usare la forza, per ottenere una svolta sul piano militare. A volte basta che la polizia si faccia vedere effettivamente determinata, per fermare le bande. […]
Ma se si continuasse ad escludere, per le più svariate ragioni, il ricorso alla forza internazionale, si continuerebbe a lasciare libero il campo ai più forti e meglio armati, con il rischio di sterminare i gruppi più deboli, di costituire un precedente pericolosissimo in Europa, di moltiplicare le guerre nell’area e di approfondire ancora di più il fossato fra Est e Ovest, tra mondo cristiano e islam, tra cristiani orientali e occidentali. Questo non deve succedere (“Uso della forza militare internazionale nella ex-Jugoslavia”, sintesi di una intervista telefonica, 6 luglio 1993).

Konrad Witz, San Cristoforo traghetta Gesù bambino (olio su tela, ca. 1435, Kunstmuseum, Basilea)

Uno dei dettagli che più mi aveva colpito dell’articolo di Repubblica che rendeva conto del suicidio di Langer erano state le parole — i pesi mi sono diventati insostenibili — scritte su uno dei tre biglietti di commiato da lui lasciati, e che si chiudeva così:

“Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati”. Anche nell’accettare questo invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto.

Parole che con sorpresa avevo ritrovato in uno dei due eserghi che l’editore Sellerio aveva scelto per aprire Il viaggiatore leggero. L’altro esergo è un passo tratto da un articolo di Langer, datato novembre 1961, uscito per il primo numero del periodico in lingua tedesca Offenes Wort (“Parola aperta”), da lui stesso fondato insieme ad altri amici studenti:

Vorremmo esistere per tutti, essere di aiuto a tutti ed entrare in contatto con tutti. Venite a noi, e vi aiuteremo con tutte le nostre forze… venite a noi con fiducia, portandoci appresso tutti i vostri problemi, quali essi siano.

Questi due eserghi messi uno sopra l’altro, ma in ordine inverso rispetto a quello scelto qui, racchiudono, mi sembra, la presa di coscienza del fallimento di un proposito di vita, data l’eccessiva ambizione del proposito stesso. Dopo aver letto gli scritti di Langer arriva, come già detto, tutta lo spessore intellettuale dell’uomo, ma anche lo straordinario peso che quell’uomo stesso aveva deciso di gravarsi sulle spalle — esistere per tutti, essere di aiuto a tutti ed entrare in contatto con tutti. Peso che probabilmente lo ha costretto alla resa, peraltro in qualche modo preannunciata nella straziante lettera rivolta a san Cristoforo che chiude l’antologia.
A colui che porta il Cristo, «un omone grande e grosso, robusto, barbuto e vecchio», Langer dà del tu, talmente lo sente vicino e in grado di capire il suo tormento:

Tu eri uno che sentiva dentro di sé tanta forza e tanta voglia di fare, che dopo aver militato – rispettato ed onorato per la tua forza e per il successo delle tue armi – sotto le insegne dei più illustri ed importanti signori del tuo tempo, ti sentivi sprecato. Avevi deciso di voler seguire solo un padrone che davvero valesse la pena seguire, una Grande Causa che davvero valesse più delle altre. Forse eri stanco di falsa gloria, e ne desideravi di quella vera.

Così Cristoforo, racconta Langer, decise di stabilirsi lungo la riva di un fiume pericoloso per traghettare, grazie alla sua forza eccezionale, i viandanti che da soli non ce l’avrebbero fatta a guadarne il letto. E in quella veste, indossata con modestia, gli capitò di dover assolvere a un servizio apparentemente molto al di sotto delle sue forze: prendere sulle spalle un bambino per portarlo da una riva all’altra, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante e avere quelle gambone muscolose con cui il santo sarebbe stato dipinto negli affreschi di così tante chiesette di montagna visitate da Langer da ragazzino. Dopo aver iniziato la traversata, però, Cristoforo si accorge che, in verità, ha accettato di assolvere il compito più gravoso della sua vita, per il quale avrebbe dovuto mettercela tutta. Perché il bambino che si era caricato sulle spalle altri non era che il Cristo, la Grande Causa che valeva la pena servire, tanto che quel nome gli rimase per sempre.

Perché mi rivolgo a te, alle soglie dell’anno 2000? Perché penso che oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua, e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura possa essere una parabola di quelle che sta dinanzi a noi.

Quando Langer scriveva queste parole, nel febbraio-marzo del 1990, probabilmente era ancora convinto di poterla compiere, quella traversata, nel solco di una nuova Grande Causa che lui — come tanti giovani e meno giovani di oggi — identificava nella questione ambientale o, più precisamente, nel «passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”». Perché «dopo secoli di progresso, in cui l’andare avanti e la crescita erano la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente impari pensare di “regredire”, cioè di invertire o almeno fermare la corsa del citius, altius, fortius. La quale è diventata autodistruttiva, come ormai molti intuiscono e devono ammettere (e sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquinamento, l’invasione di composti chimici non più domabili… ed un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità)».

Tra le righe di questa lettera al gigante Cristoforo traspare ancora tanta forza, tanta determinazione. Langer sembra consapevole che non basterà la paura della catastrofe ambientale (esemplificata dal recente disastro di Cernobyl’) a convincere le masse a imboccare la strada della conversione ecologica, e la storia gli darà ancora una volta ragione. Ed è per questo che si rivolge a chi ebbe la forza di fare fronte alle difficoltà anche in un momento in cui tutto sembrava perduto.
Poi però, trascorsi cinque anni laceranti e per motivi indicibili, qualcosa dev’essere cambiato, la speranza di avere ancora intatte le forze per compiere quella traversata è venuta meno.
E ora di Alexander Langer, libero pensatore che ha dedicato tutta la sua vita —«invidiabilmente ricca di viaggi, di incontri, di conoscenze, di imprese, di lingue parlate e ascoltate, e di amore» — a saltare muri e a esplorare frontiere, è quasi appagante preservare il ricordo, magari anche con una bella escursione in quel sentiero di montagna della Val Gardena, tra Ortisei e Santa Cristina, che conduce alla cascata Piscadoi, sul rio Piz, e che oggi porta il suo nome.


Foto di Wolfgang Moroder

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