20 novembre 1975 — Qualcuno volò sul nido del cuculo (o dello scrivere bene il copione della propria vita)

Oggi, ma quarantacinque anni fa, nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti usciva One Flew Over the Cuckoo’s Nest, opera libertaria e liberatoria diretta dallo semisconosciuto regista cecoslovacco Miloš Forman e tratta dall’omonimo romanzo di Ken Kesey.
Insieme ad Accadde una notte di Frank Capra e a Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, Qualcuno volò sul nido del cuculo è uno dei tre film nella storia del cinema ad aver vinto il premio Oscar come miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice e migliore sceneggiatura non originale.



La storia di come nasce una grande opera spesso è affascinante quanto l’opera stessa, e il caso della genesi di Qualcuno volò sul nido del cuculo non fa eccezione.
L’ho capito diversi anni fa quando, per il mio ventisettesimo compleanno, ricevetti in dono il doppio dvd del film, appena messo in commercio dalla Warner Home Video e ricco di inserti speciali, tra cui un making of che racconta come il Cuculo spiccò il volo e le incredibili settimane trascorse dal cast e dalla troupe all’interno dell’ospedale pubblico dell’Oregon, tra il gennaio e il marzo del 1975.
I protagonisti di questo dietro le quinte sono volti noti e meno noti, alcuni familiari al grande pubblico già all’epoca dei fatti, mentre altri lo sarebbero diventati nel giro di qualche anno, e altri ancora non lo sarebbero diventati mai.
Tra i primi c’è senz’altro Michael Douglas, produttore del film insieme a Saul Zaentz, a cui è affidato il ricordo di come tutto ebbe inizio per merito di suo padre Kirk, che nel 1960, dopo essersi innamorato del romanzo di Ken Kesey, ne acquista i diritti per trasformarlo in un dramma teatrale prima e in una pellicola poi.
Quest’ultimo progetto, però, rischia di finire in un nulla di fatto per colpa della guerra fredda e del gelo diplomatico tra Stati Uniti e blocco sovietico. Nel 1961, infatti, Kirk Douglas, durante un viaggio in Cecoslovacchia, conosce il giovane regista Miloš Forman che all’epoca ha all’attivo un solo documentario, Laterna Magika II, e un paio di sceneggiature. Eppure il divo hollywoodiano rimane affascinato da quel ragazzo di ventinove anni, vede in lui quell’inquietudine, quella voglia di sfidare lo status quo che impregna le pagine del romanzo di Kesey e che pochi anni più tardi spingerà la gioventù praghese a dare l’assalto al cielo. Per questo motivo, alla vigilia del suo rientro negli Stati Uniti Douglas promette al nuovo amico che, una volta atterrato in patria, avrebbe spedito al suo indirizzo il romanzo di Kesey, così da dargli un’occhiata e magari, chissà, diventare proprio lui il regista incaricato di trasferirlo su pellicola.
Dopo quella promessa trascorrono le settimane, poi i mesi, poi gli anni, ma al giovane Miloš il libro di Kesey non arriva mai. Douglas, da parte sua, ha tenuto fede alla parola data, senza però fare i conti con la censura del regime ceco, che ha confiscato il romanzo alla dogana, senza mettere al corrente del provvedimento il destinatario. Così Forman trascorre i successivi dieci anni della sua vita nella convinzione che Douglas non abbia mai dato seguito alla sua promessa, fino a quando, nel 1971, il romanzo di Kesey giunge finalmente nelle sue mani, ma stavolta per merito del figlio di Kirk, Michael, che non ha ancora abbandonato l’idea del padre di ricavarne un film.



Forman è entusiasta del progetto, sente che quella storia, come aveva intuito l’amico Kirk, è molto più vicina alla sua vita di quanto si possa immaginare, tanto che, anni dopo, a proposito del Cuculo dirà:


È un film ceco, parla della società nella quale ho vissuto per vent’anni. Parla della mia vita, di ciò che ho vissuto.


Ricevuto l’incarico più importante della sua carriera, Forman affida il compito di adattare per il grande schermo quella storia di internamento e repressione a un personaggio estraneo quasi quanto lui al giro di Hollywood: Bo Goldman, semisconosciuto drammaturgo newyorchese che in quel 1974, quando scelto per scrivere la sceneggiatura di un film destinato a diventare un classico, è alla prima prova di spessore della sua vita professionale.
Del resto, la scelta di Goldman risponde alla stessa logica che ha portato Douglas e Zaentz a puntare su un regista alle prime armi come Forman: il budget ridotto all’osso e, di conseguenza, l’obbligo di giocare al risparmio su ogni fronte, a cominciare dall’ingaggio di un regista e di uno sceneggiatore che appartengono in tutto e per tutto alla categoria degli outsider.
Eppure a Goldman bastano pochi giorni per dimostrare di avere le idee molto chiare, e la fiducia del suo regista se la guadagna in uno dei primi pomeriggi trascorsi insieme a New York, a lavorare sulla sceneggiatura in un hotel di Manhattan, mentre il giovane Bo cerca in tutti i modi di ottenere l’attenzione del coetaneo Miloš, distratto dalle disinvolte bellezze americane che trotterellano in bikini lungo il bordo piscina dell’albergo:


Una delle prime idee che ebbi era che McMurphy, il protagonista del film, quando viene accompagnato all’ospedale da una pattuglia della polizia, una volta sceso dall’auto e liberato delle manette ai polsi dovesse baciare una delle guardie. Quando descrissi la scena a Forman, riuscii a catturare per un attimo la sua attenzione e mi disse: “Bravo Bo. Ben fatto!”.



Già, Randle Patrick McMurphy.
Ora è impossibile scindere il protagonista del Cuculo dal ghigno di Jack Nicholson, ma in origine le cose non furono così scontate. Oggi sappiamo che nella lista delle prime scelte Nicholson non occupava il podio, preceduto da star all’epoca ben più acclamate di lui come Gene Hackman, Marlon Brando e Burt Raynolds — a quanto pare il candidato preferito di Forman, anche se il regista negherà sempre questa ricostruzione. Nella sua versione dei fatti, Nicholson è sempre stato il prescelto, tanto da convincere la produzione a spostare di sette mesi l’inizio delle riprese proprio per attendere che l’attore di Sogni perduti e Easy Rider terminasse un altro film in cui era impegnato.
Attesa che rese possibile uno dei connubi attore-personaggio più riusciti della storia del cinema, come lo stesso Bo Goldman ricorda con queste parole:


Come descrivere lo stile di Nicholson? Quell’esuberanza, quell’impetuosità, quella meravigliosa risata stridula che sembrava voler mandare a farsi fottere tutto il mondo, che poi siamo noi, e che era davvero al centro del film… Dal momento in cui nasciamo ci raccomandano di entrare a far parte del sistema, ma per cosa ci troviamo su questa terra se non per reinventarci continuamente? McMurphy, nonostante la sua criminalità, la sua follia e la sua ossessione, lo capisce meglio di tutti…



Le difficoltà nella scelta di quello che sarebbe stato il protagonista del Cuculo, alla guida di un cast che solo negli anni a venire avrebbe rivelato tutta la sua lucentezza, furono ben poca cosa se paragonate a quelle che portarono all’individuazione di uno dei personaggi chiave del film, benché per tutta la sua durata pronunci sì e no tre battute monosillabiche: Grande Capo.
Nel romanzo di Kesey, Grande Capo è un indiano sordomuto, possente come una montagna, internato nell’ospedale psichiatrico per non si sa quale motivo. E tale avrebbe dovuto rimanere anche nel film. Racconta Forman:


Volevo che Grande Capo fosse come lo aveva descritto Kesey, grande e grosso, ma in realtà gli indiani non sono così, non hanno quella fisionomia, quindi trovarlo sarebbe stato molto difficile.


Non per niente, le parole con cui Michael Douglas ricorda come a un tratto, dal nulla, sbucò il nome di Will Sampson, l’indimenticabile Capo Bromden del Cuculo, è tra i più esilaranti di tutto il making of:


Durante un viaggio di ritorno a New York, sedevo vicino a un tipo di nome Mel Lambert, della Mel Lambert Motors di Portland, Oregon. Perciò gli chiesi se fosse disposto ad aiutarmi per un film, e lui mi rispose: “Dipende da quello che vuoi. Ma siccome non mi faccio impressionare dalla star del cinema, sappi che dovrai comunque pagarmi”.
Così gli raccontai del film e gli dissi che cercavo degli indiani. E lui mi disse: “Michael, mio padre era un agente indiano. Sono cresciuto nelle riserve indiane. La Mel Lambert Motors è l’unica compagnia che vende macchine agli indiani del Nord-Ovest”. Così ci accordammo che se mai avesse visto qualcuno che corrispondeva al tipo di indiano che stavamo cercando mi avrebbe telefonato.
Qualche settimana dopo ricevo una telefonata: “Michael, sono Mel Lambert. Gesù! L’altro giorno è entrato qui il più grosso bastardo che abbia mai visto! Non avevo mai visto un tipo così. Si chiama Will Sampson, abita a Yakima, Washington. È un guardaboschi. I suoi dipinti sono esposti allo Smithsonian. Devi conoscerlo, ne vale la pena”. Allora convochiamo questo Sampson a New York, e io, Jack e Miloš andiamo a prenderlo all’aeroporto.
Aspettavamo che i passeggeri uscissero, e quando Will uscì da quella porta, sussultammo e tutti insieme dicemmo: “Oh, mio dio!”. Ricordo che Jack disse: “Sa parlare? Non deve per forza parlare!”. “Esatto, non deve” gli risposi io. “Oddio, non ci credo”, Jack lo guardava come se fosse stato un extraterrestre. Camminava e ripeteva: “Accidenti, l’abbiamo trovato. È lui!”.



Aneddoti di questo tipo si susseguono per tutta la durata del documentario, che nella seconda parte racconta la surreale e per certi versi sempre più inquietante atmosfera che, giorno dopo giorno, si va creando all’interno dell’ospedale pubblico dell’Oregon, scelto come location per gli interni del film (che costituiscono un buon 90 per cento del girato).
Ciascun membro del cast — da Danny DeVito a Christopher Lloyd, da Vincent Schiavelli a William Redfield — alloggia nella propria stanza-cella, come ogni internato autentico, trascorrendo metà della giornata a provare e/o a girare le scene, e l’altra metà a vagare lungo i corridoi del manicomio; senza mai uscire dalla parte, senza mai mollare un attimo, tanto da rendere difficile, per chi capiti lì dall’esterno senza sapere cosa stia succedendo, distinguere tra attori e veri malati.
Lo testimoniano le parole del dottor Dean Brooks, vero medico in carica all’ospedale e attore scritturato da Forman per interpretare la parte del dottor John Spivey. Brooks rivela che un giorno un impaurito Danni DeVito lo avvicina, chiedendogli cinque minuti del suo tempo per un rapido consulto medico:


Mi disse che facevano talmente tardi con le riprese che quando arrivava a casa ormai non poteva più telefonare a New York e parlare con Rhea, la sua compagna. Per cui lui si era fatto un amico con cui parlare…






Nell’ultima parte, anche il making of si connota di quella malinconia che domina l’indimenticabile epilogo del film.
Si racconta la commozione che riempie il set mentre Grande Capo si accorge delle condizioni in cui è stato ridotto il suo amico McMurphy, i timori di Bo Goldman che l’abbraccio tra i due possa risultare troppo sentimentale, e il suo tormento per non sapere quale battuta far pronunciare all’indiano in un momento così lacerante:


Cosa avrebbe detto Grande Capo? Quale sarebbe stata la sua ultima battuta? Non lo sapevo. Milos mi disse: “Secondo te cosa dovrebbe dire?”. Risposi: “Credo che dovrebbe dire ‘andiamo!’”. E Milos rispose: “Perfetto!”. Fu la miglior battuta che abbia mai scritto. Racchiudeva in sé l’intera storia. Avrebbero fatto una gita insieme, e il fatto che uno di loro fosse morto non cambiava nulla.


E poi l’elettricità che attraversa il set nel momento in cui Capo Bromden sradica dal pavimento il gigantesco lavello in marmo per scagliarlo contro la finestra e fuggire, accompagnato nella sua corsa verso le colline dell’Oregon dalle struggenti note della colonna sonora di Jack Nitzsche. Racconta Douglas:


Fu l’unica scena che girammo una volta sola. Non ricordo se ci fossero quattro o cinque camere in funzione, ma prepararono le macchine da presa e tutto il resto, e poi anche tutta la troupe e tutto il cast si riunirono intorno all’area della stanza da giorno. Quando Grande Capo attraversò la stanza e buttò l’oggetto giù dalla finestra, c’era un silenzio assoluto. Ma appena Milos gridò “stop!” tutti esplosero.



E a chiudere, ancora una volta, le parole di un sempre più commosso Bo Goldman a proposito del senso ultimo di un’opera che avrebbe accompagnato lui, il cast e la troupe (e pure me) per tutto il resto della nostra vita:


Penso che quando una storia è bella non ci possono essere deviazioni. Non ci sono scelte, viene in quel modo. Se un uomo vive onestamente, alla fine ne esce intatto. Anche se la sua carriera è distrutta, anche se perde i suoi figli, anche se perde la moglie, ne uscirà comunque intatto, perché ha scritto bene il copione della sua vita…





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