19 aprile 1990/95 — Repeater McVeigh

Trent’anni fa usciva Repeater, primo album in studio dei Fugazi.

  1. Turnover – 4:16
  2. Repeater – 3:01
  3. Brendan #1 – 2:32
  4. Merchandise – 2:59
  5. Blueprint – 3:52
  6. Sieve-Fisted Find – 3:24
  7. Greed – 1:47
  8. Two Beats Off – 3:28
  9. Styrofoam – 2:34
  10. Reprovisional – 2:18
  11. Shut the Door – 4:49

Cinque anni dopo, alle 9.02 del 19 aprile 1995 un furgone Ford F-700 carico di fertilizzante e nitrometano veniva fatto esplodere sul lato nord del palazzo governativo Alfred P. Murrah di Oklahoma City, un edificio di nove piani costruito nel 1977 che ospitava quattordici agenzie federali, oltre agli uffici di reclutamento per l’esercito e per il corpo dei marines. Il bilancio della strage — 168 morti e 680 feriti — configura quello che verrà ricordato come il più grave attentato compiuto sul suolo degli Stati Uniti d’America prima dell’11 settembre 2001.


L’Alfred P. Murrah Building sventrato dopo l’esplosione.

Ad averlo progettato sono due giovani bianchi americani, il ventisettenne Timothy McVeigh e il quarantenne Terry Nichols. Il primo proviene da una famiglia operaia di Lockport, New York, mentre il secondo gestisce una fattoria, insieme al fratello James, nella cittadina di Decker, Michigan.
Le strade dei due uomini si sono incrociate (e mai più separate) sette anni prima, nel campo di addestramento dell’esercito di Fort Begging, Georgia, dove McVeigh — grande appassionato di armi (suo nonno gli ha regalato la prima carabina .22 all’età di tredici anni) — è approdato dopo essere stato licenziato dalla società di sicurezza in cui lavorava (per via, pare, di quella volta che si è presentato al lavoro conciato come Rambo, con tanto di fucile a canne mozze in pugno e bandoliera intorno al petto).


Timothy McVeigh

Terminato il periodo di addestramento militare, l’8 novembre 1990 McVeigh viene inviato nel nord dell’Arabia Saudita, impiegato al fronte nella prima guerra del Golfo, mentre Nichols ritorna a lavorare nella sua fattoria. È qui che i due amici si ricongiungeranno nelle prime settimane del 1992, dopo che McVeigh si è definitivamente congedato dall’esercito per dedicarsi a tempo pieno a quella che sta diventando la sua ossessione: dichiarare guerra al suo paese, corrotto e traditore.
Da questo momento, McVeigh e Nichols precipitano in una spirale paranoica-complottista nella quale fanatismo religioso, odio antigovernativo e frustrazione esistenziale si combinano fino produrre quella miscela incendiaria che esploderà nei pressi del Murrah Building.
Alla base della radicalizzazione di McVeigh giocano soprattutto due fattori: la lettura di un romanzo e lo shock emotivo conseguenza di un fatto di cronaca.


Una delle copertine (di certo non quella originale) di The Turner Diaries

Il romanzo in questione si intitola The Turner Diaries, è stato scritto nel 1978 da Andrew Macdonald, pseudonimo del suprematista bianco e neonazista americano William Luther Pierce, e narra le vicende di Earl Turner, membro attivo di un movimento rivoluzionario bianco che dichiara guerra allo stato federale, colpevole di aver confiscato tutte le armi da fuoco ai suoi cittadini, violando il sacro Secondo emendamento della costituzione americana.
La rivolta si trasformerà poi in un conflitto nucleare quando l’organizzazione guidata da Turner, conquistata la California, prende il controllo delle armi nucleari custodite in una base aerea nel sud dello stato e le punta verso New York e Israele. Allo stesso tempo i rivoltosi, animati da un razzismo atavico, danno inizio a una sorta di pulizia etnica, giustiziando tutti i bianchi non ariani e scatenando così un conflitto razziale che si estenderà a tutto il paese.
Considerato la “bibbia della destra razzista statunitense”, intorno al romanzo di Pierce si raccolgono pressoché tutte le numerose anime del nazionalismo bianco americano, compresa quella rurale da cui provengono le biografie di McVeigh e Nichols e che in questi primi anni Novanta sta conoscendo un processo di forte e violenta radicalizzazione politica.
Nel già compromesso immaginario di McVeigh, reso ancora più paranoico dalla lettura dei “Diari di Turner”, si innesta poi uno dei fatti di cronaca più sciagurati della storia americana recente. Il 19 aprile, guarda caso, 1993 dopo cinquanta giorni si conclude l’assedio portato dalle forze federali a un ranch della cittadina di Waco, Texas, sede della setta religiosa dei Branch Davidians, guidata dal predicatore David Koresh.


Un articolo del Corriere della Sera sulla strage di Waco.

Tutto era iniziato il 28 febbraio di quell’anno quando una squadra dell’Atf, l’ente governativo che indaga sui crimini legati al commercio illecito di tabacco, droga e armi, aveva tentato di effettuare una perquisizione all’interno del ranch, da tempo sede di una guerra intestina alla setta e oggetto di insistenti voci su presunte illegalità riconducibili ad abusi sessuali e detenzione impropria di armi da fuoco. Quel tentativo però, per motivi mai del tutto chiariti e nonostante gli inviti rivolti da Koresh all’autorità federale affinché tutto procedesse per il meglio, si era trasformato in un conflitto a fuoco tra i due schieramenti, in seguito al quale avevano perso la vita sei davidiani e quattro agenti federali.
Da quel momento le forze governative avevano assediato il ranch intimando la resa ai fedeli asserragliati al suo interno, i quali avevano contrapposto una resistenza a oltranza. Fino a quando, il 19 aprile appunto, reparti speciali dell’Fbi e della Delta Force, grazie anche all’utilizzo di mezzi corazzati e armi pesanti, avevano circondato il ranch, e per costringere i suoi occupanti ad arrendersi lo avevano fatto oggetto di un fitto lancio di gas lacrimogeni, provocando un vasto incendio che aveva causato la morte di 76 vittime tra uomini, donne e bambini.
Nella testa di McVeigh — che come tanti altri suoi concittadini sensibili al tema delle libertà personali, compresa quella sancita dal Secondo emendamento, si era recato personalmente a Waco per solidarizzare con i davidiani, ed era anche stato segnalato e schedato dall’Fbi — il drammatico epilogo di Waco si salda con la trama di The Turner Diaries e funge da efficace detonatore di tutta la rabbia antigovernativa accumulata negli anni. «Considerando la presa che aveva il libro di Pierce su McVeigh» scrive Joel Dyer in Raccolti di rabbia. La minaccia neonazista nell’America rurale (Fazi editore, 2002) — libro che comprai appena uscì alla libreria Fahrenheit 451 di Campo dei Fiori e tra le cui pagine, risfogliate in questi giorni, ho ritrovato una mia recensione scritta a mano su un foglio A4 e pubblicata poi chissà se e dove —,

e considerando lo stato mentale paranoico dello stesso McVeigh all’epoca dei fatti, è possibile che McVeigh abbia reagito al massacro di Waco nello stesso modo in cui il suo eroe – il personaggio centrale del libro, Earl Turner – reagiva alle severe restrizioni poste dal governo a chi possedeva armi da fuoco.
Nel romanzo di Pierce, Turner è un patriota antigovernativo che alla fine è costretto a passare all’azione, una volta che il governo approva una legislazione contro le armi da fuoco. E cosa fa Earl Turner? Fa saltare un edificio federale che ospita l’Fbi con una bomba composta da fertilizzante e combustibile nascosta in un camion. La bomba di cui si parla nel libro di Pierce era quasi identica, per dimensioni e componenti, a quella usata a Oklahoma City.

Sulle connessioni tra l’assedio di Waco e la strage di Oklahoma City ha insistito molto anche Gore Vidal, autore di un durissimo atto di accusa contro l’Fbi per la criminale gestione dell’operazione Waco pubblicato su Vanity Fair il 10 novembre 2008 con il titolo The Meaning of Timothy McVeigh. Nell’articolo compare anche l’estratto di una lettera che McVeigh, in attesa dell’esecuzione nel braccio della morte, scrisse a Vidal il 4 aprile 2001 (mi è appena venuta in mente una vicenda simile), riportato anche nel volume La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo? (Fazi editore, 2004).

Spiego qui perché ho fatto saltare in aria il Murrah Federal Building di Oklahoma. Non per farmi pubblicità né per cercare di affermare le mie ragioni, ma perché quest’azione, rispetto ad altre, sarebbe servita a più scopi. In primo luogo, l’attentato era un gesto di rappresaglia […]. Di conseguenza, l’attentato era da intendersi anche come un attacco preventivo (o proattivo) contro quelle forze militari e i loro centri di comando e controllo all’interno degli edifici federali. Quando una forza nemica lancia continui attacchi da una specifica base operativa, è una buona strategia militare portare la battaglia in campo nemico […] ho deciso di mandare un messaggio a un governo che sta diventando sempre più ostile […] far saltare in aria il Murrah Federal Building era moralmente e strategicamente equivalente alle azioni militari degli Stati Uniti contro edifici del governo in Serbia, in Iraq o altre nazioni. Basandomi sull’osservazione della politica del mio stesso governo, ho considerato la mia azione come una scelta accettabile.

Da quanto emerso dalla (relativamente breve) inchiesta condotta dall’Fbi, i preparativi dell’attentato iniziarono nell’agosto del 1994 e riguardarono, soprattutto, la costruzione del devastante e ingombrante ordigno che avrebbe sventrato il Murrah Federal Building: 108 sacchetti di nitrato di ammonio da 23 chili ciascuno, tre recipienti ermetici di nitrometano da 210 litri ciascuno e alcune cassette di esplosivo Tovex. Il tutto assemblato e trasportato a bordo di un furgone noleggiato da McVeigh presso la ditta Ryder grazie a una carta d’identità falsa procuratagli dai coniugi Michael e Lori Fortier, anch’essi indagati per aver partecipato alla pianificazione della strage, ma condannati a pene molto lievi per aver collaborato con la giustizia.


Timothy McVeigh durante una delle sue visite a Waco.

Quella mattina di venticinque anni fa, Timothy McVeigh entrava a Oklahoma City alle 8.50, e sette minuti più tardi le telecamere di un albergo nei pressi del Murrah Building registravano il passaggio del suo furgone, parcheggiato pochi istanti dopo davanti all’obiettivo. A quel punto McVeigh, innescato l’ordigno, scendeva dal mezzo e si allontanava a bordo di un’altra macchina lasciata nei pressi pochi giorni prima. Pare indossasse una maglietta con il motto Sic semper tyrannis (“Così sempre ai tiranni”), pronunciato da Bruto (ma Plutarco nega) nell’atto di assassinare Giulio Cesare, e ripetute da John Wilkes Booth dopo avere assassinato il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln.
Un’ora e mezza dopo essersi allontanato dal luogo dell’esplosione, McVeigh veniva fermato dalla polizia per una banale infrazione del codice stradale, e successivamente arrestato per possesso illegale di un fucile rinvenuto all’interno del mezzo (pare che Timothy si fosse dimenticato di rinnovare il suo porto d’armi). Gli agenti che hanno eseguito il fermo ancora non sanno chi è davvero l’uomo a cui hanno messo le manette ai polsi, ma nelle settimane successive la verità verrà a galla con una tale chiarezza da rendere le indagini sul caso relativamente semplici.
Il 2 giugno 1997 Timothy McVeigh viene dichiarato colpevole di undici reati e condannato alla pena di morte, eseguita l’11 giugno 2001 tramite iniezione letale nel complesso federale di Terre Haute, Indiana. Terry Nichols viene riconosciuto complice di McVeigh per quel che riguarda la progettazione della strage, ma estraneo alla sua esecuzione materiale, e pertanto condannato all’ergastolo (che sta tuttora scontando nel carcere di massima sicurezza Adx Florence, nella contea di Fremon, Colorado).

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