Momento clic!

Oggi un articolo di Open dà conto dei risultati di un’ampia indagine della Commissione europea in merito al fenomeno dell’antisemitismo e alla sua percezione da parte dell’opinione pubblica del vecchio continente.

Tra qualche giorno uscirà nelle librerie Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani, l’ultimo lavoro della storica Deborah E. Lipstadt, nota al grande pubblico soprattutto per la vicenda processuale che la vide contrapposta al negazionista David Irving e ricostruita nel film La verità negata.


Traduzione di Chiara Veltri
Prefazione di Anna Foa
Luiss University Press 2020

In questo libro, pubblicato da Luiss University Press nella traduzione di Chiara Veltri, Lipstadt scava fino a toccare le radici dell’antisemitismo attraverso un espediente narrativo di fantasia: la corrispondenza a distanza tra l’autrice e due personaggi inventati — la studentessa Abigail e il collega Joe — ispirati a studenti e colleghi incontrati nei suoi anni di studio e insegnamento.

Mentre lavoravo al libro mi sono sentito in imbarazzo. Sicuramente, ho pensato, almeno una volta nel corso della mia vita avrò detto e/o fatto qualcosa che, alle orecchie e/o agli occhi dell’autrice, mi avrebbe automaticamente fatto entrare in una delle categorie di antisemiti così ben spiegate da Lipstadt: quella dell’antisemita inconsapevole.

L’antisemita inconsapevole è una persona che è altrimenti gentile e animata da buone intenzioni, completamente inconsapevole di aver interiorizzato stereotipi antisemiti e di perpetuarli. L’unica reazione giusta, per quanto difficile, è dire educatamente a questa persona che le sue parole rientrano nella categoria di un insidioso e offensivo stereotipo etnico.

Ricordo, per esempio, quelle pause pranzo a base di pizza farcita e chinotto trascorse, da solo o in compagnia, nella caffetteria kosher di via Padova, a Roma, quando, seduto al tavolino di fronte alla vetrata che dava sulla via, osservavo i tanti ebrei ortodossi passeggiare su e giù lungo la strada, con i loro abiti scuri sopra la camicia bianca e il cappello nero da cui sbucavano i peyot, i caratteristici boccoli o riccioli laterali. O i numerosissimi kippot indossati da bambini, adolescenti, giovani e meno giovani, soprattutto nei giorni in cui qualche ricorrenza ebraica trasformava un’anonima strada in una via animata e festosa.
Ogni volta, di fronte all’esibizione di quei segni di appartenenza, un retropensiero subdolo, e inconsapevole per l’appunto, si affacciava tra un pensiero e l’altro. Non sono mai stato in grado di definire quella sensazione, né di darle un nome: una punta di fastidio e disagio, forse, motivato da nulla di preciso, da nulla di razionale. Cose a cui nemmeno ti accorgi di pensare, sensazioni che vanno e vengono senza, apparentemente, lasciare traccia, e che invece, alla lunga, inquinano i pensieri.

Ora, forse, ho capito di che si tratta(va): avevo interiorizzato un pregiudizio, come dice Lipstadt, premessa che conduce alla formulazione di stereotipi talmente introiettati da passare del tutto inosservati. Fino a quando, si spera, non arriva qualcuno ad accendere la spia, a fare clic! Perché «se non si sa definire una cosa, non la si può né affrontare né combattere».

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