I grandi fiumi dicono le cose come stanno
«Ai bivi cruciali della Storia, la Russia prova il piacere masochistico d’imboccare il sentiero sbagliato,
un’istintiva attrazione per l’abisso e la sofferenza.»
Dmitri Rusin, ricercatore accademico che ha accompagnato l’autore durante il soggiorno a Ul’janovsk, la città di Lenin e Oblamov
Ho ricevuto Volga Blues in regalo per il mio cinquantesimo compleanno, dopo averlo più volte sfogliato in libreria nelle settimane precedenti, attratto dal volto di Mikhail Terentiev, dal sottotitolo del libro – Viaggio nel cuore della Russia – e dalla curiosa dedica di p. 5: «Alla casa di Fanna, luogo di canto e calicanto».
A Fanna — piccolo comune della pedemontana pordenonese confinante con il mio e che da giovane ho frequentato spesso per questioni di cuore e di pizza — il giornalista e scrittore Marzio G. Mian, autore del libro, è nato; e chissà quali percorsi della vita lo hanno poi portato, da lì, a entrare a far parte del Pulitzer Center di Washington, a realizzare reportage in una sessantina di paesi per le più importanti testate internazionali, e a scrivere libri, tra gli altri, sull’assedio di Sarajevo, sull’America profonda del pre-Trump (quando di lui «si parlava ancora solo sui rotocalchi per parrucchieri e forse in qualche procura») e, oggi, sul cuore di tenebra della Russia di Putin. Spesso scegliendo come chiave narrativa e giornalistica del suo racconto un corso d’acqua — dal Tagliamento al Tevere, dal Tamigi al Mississippi all’infinito Volga — perché
i grandi fiumi dicono le cose come stanno. Scorrono in un loro tempo assoluto che pare non contemplare la storia degli uomini, o lambirla appena, distrattamente. Per questo sono testimoni capaci di consegnare implacabili, indicibili e intima verità. Per questo, come avevamo fatto con il Mississippi, siamo andati ad ascoltare il Volga.
Il plurale di queste ultime righe si spiega con il fatto che nel corso dei seimila chilometri che dalle sorgenti sul Rialto del Valdaj conducono al delta di Astrakan’, sul Mar Caspio, Mian viaggia — senza visto giornalistico e in un costante stato di inquietudine «che a volte può diventare panico» — insieme ad altre tre persone: l’amico fotografo Alessandro Cosmelli, «compagno di tanti reportage in giro per il mondo», e due guide locali, lo straordinariamente russo Vlad e la torbida e minacciosa Katja.
È il luglio 2023, si è appena consumato il fallito colpo di mano di Evgenij Prigožin (incredibile come me ne fossi già quasi scordato) e il livello di paranoia che attraversa la Russia neoimperiale di Putin potrebbe non essere mai stato così alto. Tuttavia, devono aver pensato Mian e Cosmelli, vale la pena correre il rischio di mettersi in marcia, perché attraversare il paese semi-clandestinamente seguendo il corso del fiume che più di ogni altro al mondo è stato testimone di violenze e crimini è l’unico modo per decifrare l’anima indecifrabile di un multi-popolo così mirabilmente descritto da Michail S., il filologo di Proletarka, una delle tante guide incontrate dal gruppo lungo il cammino:
Ogni idea che ti fai su di noi rischia di essere sostituita subito da un’altra antitetica, anche parlando con la stessa persona. Conosciamo dentro di noi le fondamentali verità della vita e della Storia, eppure viviamo, anzi, sopravviviamo, nella negazione della verità. D’altronde le confessioni di molti personaggi di Dostoevskij non scaturiscono forse proprio dal disgusto per la menzogna? E ciò accadeva prima dei tribunali del popolo e dell’ateismo di Stato. Siamo sempre gli stessi bugiardi.
Siamo nella periferia della città di Tver’, nell’alto Volga, retrovia di zombie passata direttamente dalla storia contemporanea all’archeologia, punto d’osservazione ideale per contemplare «il cadavere ancora caldo dell’Unione Sovietica». Il viaggio è alle prime tappe, ma queste parole del filologo e gli incontri che le hanno precedute — la badessa devota a Sant’Olga la Terribile, e Natalja, la storica del »Tritacarne di Ržev» — hanno già impresso nelle pagine quel magnetismo così spesso riscontrabile nell’orrore:
Ottantacinque tonnellate di carne umana. Natalja Dranova, storica locale di Ržev con un passato di studi scientifici, ha fatto due conti sulla carneficina. Ha immaginato che un giovane uomo russo negli anni quaranta pesasse in media sessantacinque chilogrammi — probabilmente per difetto. Nel «Tritacarne di Ržev», come viene chiamata la battaglia combattuta qui nel 1942 e durata quindici mesi, morirono un milione trecentomila soldati; dunque ottantacinque tonnellate di cadaveri. «Accatastati fanno un palazzo di cinque piani come quello,» ci dice Natalja indicando uno stabile chruščëvka, un fatiscente condominio prefabbricato anni sessanta che affaccia sulla sponda opposta del Volga. «Quale popolo al mondo è capace di dare la vita per la patria come noi? Più che le nostre armi, l’Occidente teme la nostra disponibilità a sacrificare la vita: questo altera ogni calcolo, pone i nostri nemici di fronte a un fattore umano destabilizzante. Puoi avere tutte le tecnologie che vuoi, ma il cuore vincerà sempre. Il cuore è la nostra vera bomba atomica, non so se mi spiego».
Nel corso dell’ultimo anno mi sono spesso chiesto se valga ancora la pena fare quello che faccio per campare.
Ovvero investire così tanto tempo e così tante energie nel tentativo di rendere un libro il più esatto possibile, cosa che ha senso fare solo se si è ancora convinti che quel parallelepipedo di carta sia davvero il più efficacie e potente strumento di conoscenza in circolazione.
Nel corso dell’ultimo anno, per varie ragioni che prima o poi metterò a fuoco, questa convinzione è venuta meno; è prevalso un senso di stanchezza, forse quel po’ di toska — parola-mondo il cui significato (che qui non svelerò) è mirabilmente descritto da Mian a pagina 78 — che ti fa perdere convinzione nell’utilità di ciò che fai.
Poi però, grazie alla generosità altrui o anche solo casualmente, capita di imbattersi in libri come Volga Blues e di convincersi che sì, ne vale ancora la pena.
Perché quando le cose si fanno maledettamente complicate (e quelle qui narrate lo sono), quando i livelli di complessità di un argomento si sovrappongono uno sull’altro con questa intensità e densità, a tal punto da ossessionarti quasi, allora solo il libro garantisce quella profondità di analisi e riflessione senza la quale ogni ragionamento è solo sterile chiacchiera.
La Russia riesce a governare la modernità perché non è una democrazia. In Occidente le democrazie sono sopraffatte dalla modernità, che è molto diversa da quelle precedenti, perché è dominata da due dogmi, il profitto e la tecnologia, entrambi realtà virtuali. Per la Russia, per tutti i russi, l’unico dogma è l’integrità della Russia, con tutto quello che comporta questo concetto, compresa la disponibilità a rinunciare alla libertà e alla verità. A voi sembra un’invenzione o un’ossessione di Putin, invece è un sentimento radicato nel reale, esiste nell’aria che due russi respirano quando sono insieme. Perché dentro di noi sappiamo che cosa significherebbe la disintegrazione. Così anche la tecnologia, per quanto sia agli stessi livelli di quella occidentale, se non più avanzata, non sarà mai la nostra fede. Se ci sarà una nuova rivoluzione non sarà tecnologica, sarà fatta di carne e sangue, come le altre. Basteranno poche ore per passare dall’indifferenza all’apocalisse, e non avverrà via YouTube o Telegram.
Marzio G. Mian, Volga Blues. Viaggio nel cuore della Russia, Feltrinelli Gramma 2024